Intifāda (dall’arabo: انتفاضة “intervento”, “sussulto”) è un termine arabo che vuol significare nella fattispecie “rivolta”, “sollevazione”.
Il termine è entrato nell’uso comune come nome con cui sono conosciute le rivolte arabe dirette a porre fine alla presenza israeliana in Palestina.
L’Intifāda è uno degli aspetti più significativi degli anni recenti del conflitto israelo-palestinese.
Cominciamo dai recenti delitti.
Per i palestinesi e i loro tanti apologeti in Occidente, i coniugi Henkin sono colpevoli della loro stessa tragedia in quanto “agenti dell’occupazione”.
L’Autorità Palestinese non ha condannato il delitto perché lo ritiene “un atto legittimo di resistenza”.
Quando, due giorni dopo l’assassinio dei coniugi Henkin, sono stati accoltellati a morte nella Città Vecchia di Gerusalemme Nehemia Lavi e Aharon Banito, l’Autorità Palestinese non ha deplorato la loro uccisione a sangue freddo, ma l’uccisione a caldo del loro aggressore.
Il portavoce dell’Autorità Palestinese Ihab Bseiso ha aggiunto che “l’unica soluzione è la fine dell’occupazione israeliana della nostra terra palestinese occupata e la creazione del nostro stato indipendente sui confini del ‘67 con Gerusalemme come capitale”.
In altre parole, il terrorismo finirà quando Israele rinuncerà a ogni centimetro di terra conquistato difendendosi nella guerra dei sei giorni.
Ma è una menzogna.
Ottantasei anni fa, nell’agosto 1929, 133 ebrei vennero uccisi dagli arabi a Gerusalemme, a Hebron e a Safed.
A quell’epoca non c’era nessuna “occupazione israeliana”.
In realtà il motivo per cui degli ebrei sono stati uccisi nella Città Vecchia di Gerusalemme nell’agosto 1929 e nell’ottobre 2015 è esattamente lo stesso: i capi palestinesi hanno fomentato le violenze accusando falsamente gli ebrei di “profanare” la moschea di Al-Aqsa.
Nel 1929 Haj Amin al Husseini (il mufti di Gerusalemme, collaboratore dei nazisti, elogiato come un “eroe” dal capo dell’Olp Yasser Arafat) fece circolare volantini con foto ritoccate in cui si accusavano gli ebrei di pianificare la presa e la distruzione della moschea di Al-Aqsa. Il 16 settembre 2015, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha dichiarato testualmente: “Noi benediciamo ogni goccia di sangue versata per Gerusalemme, che è sangue pulito e puro se versato per Allah. Ogni martire andrà in cielo, e ogni ferito verrà ricompensato per volontà di Allah.
La moschea di Al-Aqsa è nostra, la Chiesa del Santo Sepolcro è nostra, e loro [gli ebrei] non hanno alcun diritto di profanarle con i loro piedi sozzi.
Noi non permetteremo loro di farlo e faremo tutto quanto in nostro potere per proteggere Gerusalemme”.
Non deve dunque sorprendere se Muhannad Halabi, il 19enne assassino arabo che ha pugnalato a morte due ebrei nella Città Vecchia di Gerusalemme lo scorso sabato sera, prima di commettere il crimine ha scritto sulla sua pagina Facebook: “Ciò che sta accadendo alla moschea di al-Aqsa è ciò che sta accadendo ai nostri luoghi santi e la via del nostro Profeta [Maometto]”.
Halabi è stato istigato, ed ha agito di conseguenza.
Non ha scritto d’essere motivato dalla necessità di creare uno stato arabo indipendente all’interno delle ex linee armistiziali che separavano Israele e Giordania negli anni 1949-‘67. Le vittime che ha preso di mira non erano militari, ma civili. La sua motivazione non era politica, ma religiosa.
Lo stesso vale per gli assassini di Eitam e Naama Henkin.
In quanto membri di Hamas, non si battono per la creazione di un ulteriore stato arabo a fianco di Israele, ma per uno stato islamico “su ogni centimetro della Palestina” (articolo 6 della Carta di Hamas), dove non sarà ammesso nessun ebreo (e nessun cristiano).
La Carta di Hamas cita il famoso hadith Al-Bukhari (una dichiarazione non compresa nel Corano, ma attribuita a Maometto): “Il Giorno del Giudizio non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra e l’albero diranno: o musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo”. Secondo un sondaggio condotto da Stanley Greenberg nel luglio 2011, il 73% dei palestinesi concorda con questo hadith (si veda il Jerusalem Post del 15 luglio 2011).
Non è un caso se il terrorismo palestinese colpisce sistematicamente i civili. Come nel 1929, anche oggi l’assassinio di ebrei è motivato da sobillazioni calunniose e credenze religiose: entrambe già presenti ben prima della nascita dello stato di Israele, così come entrambe continuerebbero ad esistere anche se Israele dovesse ritirarsi da ogni centimetro di terra conquistato nel giugno ‘67.