Yemen : Vicina l’adesione al Consiglio di Cooperazione del Golfo

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Persi nel caos degli eventi che hanno interessato la regione negli ultimi anni, ci si è dimenticati che lo Yemen, ad oggi, avrebbe dovuto già far parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG).

Creata il 25 maggio 1981, su impulso dell’Arabia Saudita e pressione degli Stati Uniti, l’Organizzazione ha scopi essenzialmente economici, politici e sociali. Il Consiglio comprende i seguenti Stati del golfo Persico: Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar.

Questi sono spesso chiamati Paesi della cooperazione del golfo Persico.

L’Organizzazione ha per scopo l’instaurazione nel golfo Persico di un mercato comune. L’accordo economico unificato fu firmato l’11 novembre 1981 a Riyad e dal 1º dicembre dello stesso anno i Paesi membri aprirono le loro frontiere economiche ai beni prodotti dentro la regione.

Il Consiglio ha per scopo d’assicurare sia la stabilità economica e politica della regione, sia l’unificazione del sistema economico e finanziario dei Paesi membri.

Il Mercato comune del golfo Persico è stato varato ufficialmente il 1º gennaio 2008, prima tappa del percorso che si sperava avrebbe condotto a una moneta unica, il Khaliji, entro il 2010.

Allo stato attuale, si prevede che la maggioranza degli Stati membri possa arrivare alla moneta unica entro il 2020.

Nel 2007, quando ancora si sperava in un brillante accesso del Paese al CCG, venne fissata la data del 2015.

Anche se sono passati quasi dieci anni, l’adesione al Consiglio rimane ancora qualcosa a cui aspirare, sebbene le condizioni siano notevolmente cambiate.

I punti a favore sono difficili da rifiutare.

Coloro che sostengono che lo Yemen dovrebbe aderire come membro a tutti gli effetti, pongono l’accento sul vantaggio economico che tale adesione costituirebbe per il CCG.

Con i suoi 26 milioni di abitanti, lo Yemen rappresenta un potenziale vasto mercato per i produttori del Golfo, soprattutto per Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, oltre a costituire un ampio bacino di lavoratori, che condividono la stessa lingua, religione e cultura degli altri membri.

A questo proposito, un punto a favore sarebbe anche il costo del lavoro in Yemen: se l’integrazione permettesse un abbattimento delle barriere, le aziende del CCG potrebbero espandersi nel paese e beneficiare di costi di produzione molto più bassi.

Un fattore determinante rimane, tuttavia, la sicurezza.

La situazione attuale non è riconducibile a un unico elemento quale la ribellione houthi o la presenza di AQAP (Al-Qaeda in the Arabian Peninsula) sul territorio.

Piuttosto, una serie di debolezze (politiche inadeguate, corruzione e clientelismo) ha reso il Paese vulnerabile nel corso degli anni a interferenze straniere. 

Lo scioglimento del Parlamento per opera degli houthi il 6 febbraio 2015  ha reso ufficiale il fallimento del dialogo di pacificazione nazionale.

Eppure lo Yemen appariva come un successo delle Primavere arabe, con l’uscita di scena del presidente Saleh dopo quasi trent’anni di potere.

ECONOMIA − A livello economico lo Yemen deve affrontare annualmente diverse crisi: la prima è quella dell’acqua.

Solo il 42% della popolazione rurale ha accesso a un adeguato rifornimento idrico e nelle città non va molto meglio.

Per fare un esempio, Taizz, terza città per grandezza nel Paese, riceve camion con rifornimenti solo ogni 45 giorni, secondo i dati del German Development Service (GDS). Poca acqua significa un’ agricoltura stentata e il ricorso annuale a ingenti acquisti esteri di derrate alimentari.

Politiche per una migliore gestione delle risorse idriche erano state predisposte sin dal 2010, (ad esempio la ricostruzione della diga di Marib con finanziamenti europei), ma il graduale peggioramento della situazione politica ha posto uno stop alla loro applicazione e, fin dalla sua ascesa al potere nel 2011, il presidente Abd Rabbu Mansoor Hadi ha mostrato scarsa attenzione a questo problema.
Seconda crisi che lo Yemen si trova a gestire è l’esaurirsi delle sue riserve petrolifere. Già nel 2005 Saleh ammetteva che si sarebbero dissolte in un decennio.

Considerando che le fonti principali di entrate per lo Stato yemenita sono il petrolio e gli aiuti umanitari, si può capire come la situazione economica sia disastrosa.

Gli introiti, inoltre, non sono mai stati utilizzati per il miglioramento del Paese, ma sono stati assorbiti dalla corruzione dilagante e da politiche di breve termine.

Il malaffare ha raggiunto livelli tali che già nel 2004 Transparency International pose lo Yemen al 112simo posto su 146 Paesi in un’indagine sul livello di corruzione.

Tale situazione ha anche indotto alcuni gruppi non governativi internazionali a sospendere gli aiuti al Paese, con la cancellazione di programmi volti al miglioramento della vita.

PROBLEMATICHE POLITICHE − La situazione attuale trova alcune delle sue cause nelle politiche portate avanti dall’ex presidente Saleh contro tre attori: le tribù, la minoranza sciita e le regioni del Sud.
Storicamente le tribù sono sempre state fondamentali per conquistare e mantenere il potere.

Ne sapevano qualcosa gli Imam zaiditi che definivano le due più grandi confederazioni tribali, Hashid e Bakil, le «ali dell’Imamato».

Le loro risorse economiche e, soprattutto, militari sono state viste come un pericolo dall’ex presidente Saleh, che ha tentato di indebolirle con una politica clientelare mirata ad assicurarsi la lealtà dei Mashayikh, (plurale di shaykh, leader tribale).

Il sistema clientelare ha portato alla frantumazione della solidarietà tribale e a una delusione rispetto a una leadership tradizionale.

Principale conseguenza di questa situazione è stata la penetrazione nel territorio yemenita di alcuni gruppi quali AQAP (Al-Qaeda in Arabian Peninsula) e, più di recente, ISIS.
I fondi utilizzati per questa politica clientelare provenivano in parte dai proventi della vendita del petrolio, e, soprattutto, dall’esproprio di terre nel Sud del Paese.

Lo sfruttamento dell’economia nel Sud, con la sostituzione di ufficiali della regione con governativi provenienti dalla cerchia famigliare di Saleh, aveva condotto già nel 1994 a una prima guerra civile, con movimenti indipendentisti che cercavano la secessione.

Questa prima rivolta fu schiacciata nel sangue, creando nuovo rancore verso il Governo centrale del Paese.

Il movimento indipendentista (al-Hirak) è rinato nel 2007 ed è oggi uno degli attori principali della scena politica yemenita.
La politica di Saleh è sempre stata avversa anche alla minoranza sciita del Paese: gli zaiditi hanno controllato buona parte del territorio riunito ora sotto la bandiera yemenita per quasi un millennio ed erano sempre stati in grado di iniziare rivolte.

La chiusura di scuole islamiche di culto zaidita e il tentativo di imporre l’apertura di luoghi di culto salafita nella regione di Sa’ada, tradizionale roccaforte sciita, da parte del Governo hanno portato al nascere di forti tensioni che sono sfociate nella ribellione houthi nel 2004.

Il movimento, che durante i primi anni era stato costretto a difendersi sia contro l’esercito regolare sia contro le truppe saudite (2009), ha conosciuto dopo la caduta di Saleh un aumento delle proprie fortune.

Gli houthi sono, infatti, riusciti a occupare la capitale nel settembre del 2014 e in ottobre anche Hodeida, principale porto yemenita sul Mar Rosso, diventando, secondo l’articolo di Peter Salisbury, da «fuori casta a king makers».

Fig.2 – Una guardia giurata posa di fronte a un complesso petrolifero nei pressi di Aden. I proventi del petrolio hanno spesso alimentato le clientele, piuttosto che supportare lo sviluppo dello Yemen

ATTORI INTERNAZIONALI − L’analisi della situazione attuale non sarebbe completa senza nominare diversi Paesi che agiscono in Yemen.

  • Arabia Saudita. L’atteggiamento saudita verso lo Yemen è stato sin dalla firma del Trattato di Taif (1934) volto all’interferenza. Questo si può vedere nella creazione, tramite la costruzione di scuole e finanziamenti, di un forte movimento wahabita fedele politicamente alla casa saudita e con una politica ricattatoria. Ogni qual volta lo Yemen rifiutava un diktat saudita, i lavoratori yemeniti erano espulsi a migliaia dal Regno. Questo è successo nel 1991 con più di 1 milione di lavoratori allontanati e si è ripetuto nel 2012, quando la volontà di integrare gli Houthi nel discorso di conciliazione nazionale costò ad al-Hadi la furia saudita.
  • Iran. Sin dal 2004 Saleh affermava che a fomentare quella che definiva una rivolta settaria fosse l’Iran, fornendo armi e addestratori agli houthi. Ma è solo nel 2012 che la notizia ha avuto conferma da fonti indipendenti. Si dovrà aspettare l’evolversi della situazione per capire di quanta influenza Teheran effettivamente disponga nel Paese: gli sciiti sono minoranza e non hanno il potere militare per occupare l’intero territorio.
  • Stati Uniti. I carichi di armi statunitensi, ufficialmente usati per combattere il terrorismo, sono stati spesso impiegati contro i separatisti del Sud e gli Houthi, che ora guardano con comprensibilesospetto la politica americana. Lo stesso vale per gli attacchi condotti con droni, che oltre a provocare vittime civili potrebbero indurre molti a unirsi all’AQAP.

È davvero rischioso lasciare senza protezione un paese così grande e vulnerabile come lo Yemen, confinante con gli altri Stati del Golfo.

La coalizione a guida saudita ha passato tutto l’anno a respingere i ribelli Houthi e il solo modo di assicurare che la loro influenza non penetri nuovamente in Yemen è quello di integrare a fondo il paese nel CCG.

La totale adesione dello Yemen rimane comunque un obiettivo difficile da raggiungere. La sua completa integrazione richiederebbe delle ampie riforme in termini di governance, di economia e di leggi.

Esiste, però, una soluzione provvisoria: introdurre lo Yemen come membro “associato”, per facilitare l’emissione di visiti e aprire il mercato yemenita ai paesi del CCG, un po’ quello che l’Unione Europea sta facendo con il Marocco.

Anche a livello militare, una maggiore integrazione rappresenterebbe un’opportunità per il Consiglio, le cui forze armate potrebbe essere dispiegate in Yemen per ricostruire l’esercito del Paese.

Tuttavia,il punto dolente rimane la politica.

Dopo l’ultimo conflitto, il CCG potrebbe incontrare un po’ di ostilità da parte degli yemeniti sull’adesione.

La rivoluzione e la guerra contro gli Houthi hanno cambiato la percezione della membership. Negli anni 2000, lo Yemen era molto più unito di quanto non lo sia oggi.

Il sentimento secessionista si è talmente consolidato nel paese che sarà molto arduo da dissipare. Anche il progetto di uno Stato federale con sei regioni, risalente al 2014, sarebbe difficile da rimettere in piedi.

Ma il gioco vale la candela.

Il modo migliore per stabilizzare il paese e, in senso più ampio tutta la Penisola, è salvaguardare l’unità dello Yemen e approfondire il legami con il CCG.

Con la guerra, tuttavia, molte cose sono cambiate e, ironia della sorte, sarebbe molto più facile inserire lo Yemen nel Consiglio che convincere gli yemeniti di Nord e Sud a restare uniti.

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