Il Senato degli Stati Uniti d’America ha approvato un disegno di legge che consentirà di processare i principi sauditi per il loro presunto coinvolgimento negli attentati dell’11 settembre.
L’istituzione americana, con questo provvedimento, dichiara guerra giudiziaria all’Arabia Saudita segnando, così, la fine dei rapporti di amicizia finora intercorsi?
E quale sarà la risposta dell’Arabia Saudita?
Con l’approvazione al Senato del progetto di legge contro i “patrocini del terrorismo”, proposto dal senatore democratico Chuck Schumer e dal repubblicano John Cornyn, si consentirà alle famiglie delle vittime del tragico attentato di riscattarsi e chiedere risarcimenti, presso le corti americane, direttamente ai principi sauditi.
Il Senatore Chuck Schumer dello Stato di New York ha dichiarato che “quello che questa legge significa per le vittime dell’11 settembre trascende la politica spicciola: assicurerà che i governi stranieri che hanno supportato gli attacchi terroristici sul territorio americano paghino un prezzo, una volta che i processi lo provino“. Ci sono già alcuni deputati, come il repubblicano Peter King dello stato di New York, che hanno promesso che appoggeranno la legge anche alla Camera dei Rappresentanti.
Ciò, significa, che le relazioni strategiche tra i due paesi sono, forse, giunte ad un punto morto, che potrebbe forse trasformarsi in un confronto politico, giudiziario, finanziario in un prossimo futuro?
Questo risultato era comunque prevedibile, soprattutto dopo la lunga e schietta intervista che il presidente Barack Obama ha rilasciato al periodico The Atlantic in cui affermava che l’Arabia Saudita ha promosso l’Islam radicale wahhabita in tutto il mondo nel corso degli ultimi tre decenni e sostenuto, con fondi occulti, gli imam radicali.
A sostegno di ciò, egli ha citato l’esempio dell’Indonesia, che ha visto la progressiva trasformazione del suo Islam moderato e tollerante in un Islam estremista e radicale, quale conseguenza dell’importazione del wahhabismo e dei suoi insegnamenti.
Quello che sta realmente accadendo è una sorta di ricatto sferrato dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita e alla sua famiglia regnante con l’obiettivo di confiscare la maggior parte delle sue enormi riserve finanziarie, che attualmente raggiungono quasi 587 miliardi di dollari, compresi i 116 miliardi in titoli del Tesoro.
Con questa cifra di debito sottoscritta, l’Arabia Saudita entra tra i maggiori Paesi detentori di titoli di Stato americani in dodicesima posizione.
E’ ben lontana dai 1.200 miliardi nella cassaforte della Banca centrale di Pechino o dai 1.100 miliardi custoditi nei caveaux di Tokyo, ma è comunque una presenza di peso.
Nella realtà la cifra è sottostimata , perché ll Banca centrale saudita è accreditata dal Fmi di detenere 587 miliardi di riserve in valuta estera.
Tipicamente, circa due terzi di queste riserve sono possedute dalle Banche centrali in dollari, quindi in forma di Treasury.
Ecco perché gli analisti ritengano probabile che l’Arabia Saudita abbia una quota maggiore a quella direttamente riportata.
Non è un caso che tra i Paesi che detengono il maggior numero di debito americano ci siano alcuni noti paradisi fiscali.
Le Isole Cayman sono il terzo più grande sottoscrittore di Treasury (con 265 miliardi di dollari per soli 60mila abitanti), le Bermuda ne hanno 63 miliardi.
Molti analisti, annota Cnn Money, ritengono che la stessa Cina passi attraverso il Belgio (al quale fanno capo 154 miliardi) per la custodia di una parte dei suoi titoli Usa.
E l’Arabia Saudita potrebbe quindi utilizzare un simile accorgimento.
E’ facile quindi comprendere l’entità del ricatto arriva che in un momento cruciale in cui l’Arabia Saudita è impegnata su più fronti – quello dello Yemen, della Siria e la tensione con l’Iran – dove la popolazione sciita rappresenta un quarto della popolazione musulmana, oltre al calo del consenso popolare del mondo islamico nei confronti delle sue politiche e delle guerre da essa intraprese.
Lo storico scambio di interessi tra l’Arabia e gli USA che prevedeva la protezione in cambio dello sfruttamento delle risorse petrolifere sembra esaurirsi con l’accordo sul nucleare siglato con l’Iran, segnando, così, il distacco dell’America dalla necessità energetica del petrolio del medio oriente.
Tutto ciò è essenzialmente dovuto ad una carenza nelle strategie politiche dei vertici sauditi e una deviazione dall’approccio adottato finora dal Regno, in cui il paese poteva vantarsi del titolo di mediatore dell’area in favore della solidarietà del mondo arabo e islamico.
Intanto, è notizia di queste ore che George Soros ha ridotto del 37% la sua esposizione nell’azionariato USA, ha investito in strumenti finanziari legati all’andamento dell’oro e ha comprato azioni della Barrick Gold, la società di estrazione di oro più grande al mondo.
Un’operazione legata alla situazione economica cinese, la locomotiva mondiale che ora sembra versare nelle stesse condizioni in cui si trovava l’economia degli Stati Uniti d’America nel 2007/2008, poco prima dello scoppio della crisi. George Soros, la cui fortuna secondo Forbes è stimata in 25 miliardi di dollari, è ricordato come l’uomo che si fece un miliardo di dollari in un solo giorno, scommettendo contro la sterlina inglese nel 1992, ma anche contro la nostra lira.
Ed è l’uomo che si trova dietro a molte, se non tutte, le rivoluzioni colorate nate per soppiantare il comunismo con il capitalismo in maniera “pacifica”.
A Repubblica, disse: “Gli speculatori fanno il loro lavoro, non hanno colpe. Queste semmai competono ai legislatori che permettono che le speculazioni avvengano. Gli speculatori sono solo i messaggeri di cattive notizie“.
E se Soros disinveste dal mercato USA per comprare oro, il più classico dei beni rifugio, la cattiva notizia non dev’essere lontana.
Un pò di storia…..
Tre mesi dopo essere salito al trono, re Salman bin Abdulaziz dell’Arabia Saudita ha rimosso dal ruolo di principe ereditario il fratellastro, Muqrin bin Abdulaziz, e l’ha sostituito con il nipote, l’attuale ministro dell’interno Mohammed bin Nayef.
Inoltre ha scelto uno dei suoi figli come secondo nella linea di successione al trono.
È una delle più grandi ristrutturazioni ai vertici del potere nella storia del regno, che accelera la transizione alla nuova generazione di principi e consolida la linea di discendenza di re Salman nei prossimi decenni.
Il decreto che ha annunciato questi cambiamenti è stato approvato dal Consiglio di fedeltà, un comitato composto dai rappresentanti delle famiglie di ognuno dei figli di re Abdulaziz ibn Saud, che fondò il regno nel 1932.
Ecco i protagonisti della vicenda saudita e le motivazioni e le conseguenze del cambiamento ai vertici del regno.
Re Salman bin Abdulaziz
- È salito al trono il 23 gennaio, al posto del fratellastro Abdullah bin Abdulaziz, morto a 91 anni dopo essere stato ricoverato per un’infezione ai polmoni. Il nuovo re, 75 anni, è più vicino agli ulama (le autorità religiose del regno) rispetto al suo predecessore. È uno dei cosiddetti “sette Sudairi”, i sette fratelli nati dall’unione tra il fondatore della dinastia e della sua sposa favorita, Hassa bint Ahmed al Sudairi, il ramo più grande e coeso della famiglia reale.
- Politica interna. Da quando è salito al trono, re Salman ha promosso una serie di cambiamenti nel governo. Ha abolito i 17 consigli che avevano gestito fino ad allora gli affari del governo e al loro posto ha istituito due comitati per occuparsi della sicurezza, delle questioni politiche e dello sviluppo economico. Inoltre ha rimosso alcuni principi importanti dalle loro posizioni e ha sostituito i governatori delle province.
- Politica estera. La posizione cauta e defilata nei confronti delle crisi regionali e l’approccio diplomatico sono stati messi da parte. L’Arabia Saudita ha assunto un ruolo più forte sostenendo attivamente i ribelli siriani che combattono contro il presidente Bashar al Assad, ed entrando a far parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti contro il gruppo Stato islamico in Iraq e in Siria. La nuova linea è stata confermata quando Riyadh si è messa a capo della coalizione dei paesi dell’area nell’operazione militare contro i ribelli houthi nello Yemen. L’iniziativa punta a creare un blocco degli stati arabi sunniti contro l’espansionismo dell’Iran sciita.
I principi ereditari manterranno anche gli incarichi di governo. Entrambi hanno dimostrato scarso interesse nei confronti delle riforme democratiche e sociali, mentre hanno puntato l’attenzione sulla sicurezza interna ed esterna. Favorevoli a rafforzare i legami con gli Stati Uniti, sostengono politiche volte a presentare l’Arabia Saudita come protagonista indipendente sullo scacchiere regionale.
1. Mohammed bin Nayef, attuale ministro dell’interno, nominato principe ereditario.
- È il primo nipote del fondatore del regno a entrare nella linea di successione. Finora l’incarico è sempre stato ricoperto da un figlio di re Abdulaziz.
- Ha 55 anni. È figlio dell’ex erede al trono Nayef bin Abdulaziz, morto nel giugno 2012, e nipote di re Salman. Ha due figlie e, a quanto si sa, nessun figlio maschio.
- Prende il posto di Muqrin bin Abdulaziz, 69 anni, il figlio più giovane ancora in vita del fondatore del regno.
- È diventato viceministro dell’interno nel 1999 e ha guidato una repressione contro i jihadisti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti.
- Nel 2009 è sopravvissuto a un attentato suicida di Al Qaeda.
- In seguito alla morte del padre nel 2012, ha preso il suo posto come ministro dell’interno.
- Appena salito al trono, a gennaio re Salman lo ha nominato secondo erede al trono dopo il principe ereditario Muqrin bin Abdulaziz.
- È una figura gradita agli Stati Uniti, con cui è in buoni rapporti.
2. Mohammed bin Salman, attuale ministro della difesa, nominato secondo erede al trono.
- Ha circa trent’anni. La sua nomina è sorprendente in un regno che è sempre stato governato da sovrani tra i 70 e gli 80 anni.
- È stato nominato ministro della difesa a gennaio e dal 26 marzo ha gestito l’operazione militare dell’Arabia Saudita contro i ribelli houthi nello Yemen.
Altre nomine
Re Salman ha anche sostituito il principe Saud al Faisal, ministro degli esteri da quarant’anni, con Adel al Jubeir, ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington dal 2007. L’allontanamento di Al Faisal non è sorprendente, dati i suoi problemi di salute, ma è la prima volta che l’incarico, di norma ricoperto da un membro della famiglia reale, è affidato a un cittadino comune. Al Jubeir si è laureato in due università statunitensi e la sua nomina è vista come un ulteriore avvicinamento di Riyadh a Washington, in un momento in cui in Arabia Saudita è diffusa la preoccupazione che un accordo sul nucleare tra l’Iran e la comunità internazionale possa espandere l’influenza di Teheran nella regione.
Inoltre il re ha nominato Adel Faqih come ministro dell’economia e Hamad al Suwailim come nuovo capo della corte reale. È stata rimossa anche la viceministra dell’istruzione per le ragazze, Nora al Fayez, la donna che dal febbraio del 2009 ricopriva l’incarico più importante nel governo saudita. Aveva cercato di introdurre programmi sportivi femminili nelle scuole pubbliche, incontrando l’opposizione dei conservatori religiosi.