Quando la comunità internazionale chiede a un paese occupante di ritirarsi si riferisce alle forze armate, non alla popolazione civile. Eccetto nel caso di Israele.
Già nei primi anni ‘70 il giudice Stephen Schwebel, che successivamente sarebbe diventato presidente della Corte Internazionale di Giustizia all’Aja, sosteneva che Israele aveva pieno diritto di trattenere il territorio che aveva conquistato durante la guerra dei sei giorni del 1967.
La sua argomentazione si basava sul fatto che Israele combatté quella guerra per difendersi dall’aggressione dei paesi circostanti, e strappò quei territori al controllo dei paesi aggressori. Secondo Schwebel, dal momento che la minaccia originaria che aveva portato alla guerra non si era dissolta, dal punto di vista di Israele trattenere (anche se non annettere completamente) quei territori era giustificato e legale, e qualsiasi cambiamento doveva dipendere dalla completa risoluzione del conflitto per vie pacifiche. Non basta.
Schwebel sosteneva che, nel caso in cui il precedente paese sovrano (la Giordania) si fosse impadronito di quel territorio in aperta violazione del diritto (tant’è vero che il resto del mondo non aveva mai riconosciuto l’annessione giordana di Giudea e Samaria nel periodo ’48-‘67), allora i diritti del paese subentrato (Israele), che ha preso il controllo del territorio nel quadro di una legale azione di auto-difesa, soppiantano i diritti del paese precedente. Sulla stessa linea si espressero i professori Eli Lauterpacht di Cambridge, Eugene Rostow di Yale e altri stimati giuristi.
Dov’è dunque l’unanimità?
Gli avversari di Israele amano brandire il “diritto internazionale” sottolineando sempre “l’evidente unanimità” dell’opinione legale internazionale contraria agli insediamenti, che ritiene del tutto giustificata (e certo non una forma di “pulizia etnica”) la richiesta di espellere tutti gli ebrei da Giudea e Samaria (Cisgiordania) nel quadro di un accordo di pace. Ma esiste veramente questa unanimità?
La settimana scorsa, la facoltà di diritto della Northwestern University ha pubblicato un’esaustiva ricerca dal titolo Uno studio globale degli insediamenti in territori occupati.
Il professor Eugene Kontorovich, esperto di diritto internazionale, ha esaminato tutti i casi nella storia moderna di insediamenti in territori conquistati, e come tali conflitti siano stati risolti.
Ebbene, in nessun caso dopo la seconda guerra mondiale e dopo la firma delle Convenzioni di Ginevra del 1949, la comunità internazionale ha accettato, come condizione per la pace o l’indipendenza, la richiesta di sgomberare tutte le persone che si erano già insediate in un determinato territorio.
Quando Timor Est rivendicò l’indipendenza dall’occupazione indonesiana, i suoi rappresentanti non condizionarono l’ambita indipendenza allo sgombero dei coloni indonesiani.
Nei negoziati tra Cipro e Turchia, l’accordo di pace non è stato condizionato all’allontanamento dall’isola di ogni colono turco.
Quando il Vietnam conquistò la Cambogia, vi affluirono un milione di coloni. Nei colloqui di Parigi del 1990, i paesi mediatori respinsero senza riserve la richiesta di sloggiare i coloni vietnamiti.
Durante la seconda guerra mondiale, sulla scia dell’occupazione sovietica dei paesi baltici arrivarono milioni di russi.
Nei primi anni ‘90, con il crollo dell’Unione Sovietica, quei paesi non condizionarono la loro ritrovata indipendenza all’espulsione dei coloni russi.
Altri casi sono attualmente aperti e dibattuti a fondo (Sahara occidentale e Marocco, Armenia e Nagorno-Karabakh, Siria e Libano, Russia e Georgia, Russia e Crimea).
In ciascun caso, quando la comunità internazionale ha chiesto al paese occupante di ritirarsi ha fatto riferimento solo alle sue forze armate, non alla popolazione civile che si fosse insediata nel territorio.
L’unica eccezione è Israele. E non abbiamo nemmeno menzionato il fatto che, in questo caso, si tratta di terre storicamente, legalmente, culturalmente e religiosamente legate al popolo ebraico: vera e propria culla della nazione e della religione ebraica migliaia di anni prima che cristianesimo e islam venissero al mondo, e certamente molto tempo prima che chiunque sentisse parlare di una “nazione palestinese”.
Dunque la pretesa palestinese non ha precedenti nella storia del mondo moderno, e dimostra di non aver nulla a che fare con la ricerca di una soluzione di pace.
Il diritto internazionale non è un sondaggio d’opinione. Per definizione, la legge è un insieme di regole che va applicato in modo obiettivo e coerente in situazioni simili fra loro.
Se la legge viene applicata in modo discriminatorio – come accade per gli insediamenti israeliana in Giudea e Samaria – allora non è una legge: è l’espressione, con pretesti giuridici, dell’idea che il popolo ebraico non abbia alcun diritto a vivere nella Terra di Sion.
Chiunque dia uno sguardo razionale e non indulgente a ciò che gli arabi hanno sostenuto nel corso degli ultimi cento anni e al modo in cui hanno distorto la storia, capisce che il loro conflitto con Israele non riguarda il territorio, ma piuttosto l’etnia, la nazionalità e la religione.
Questo è il motivo per cui non si è mai visto il riconoscimento da parte araba del diritto del popolo ebraico come tale a una qualsiasi porzione di questa terra. Sostenere che la pretesa palestinese di uno stato judenrein – cioè ripulito da tutti gli ebrei che vivono in Giudea e Samaria – nasce da un contenzioso per il territorio è sbagliatoe irresponsabile.
Un caso di pulizia etnica?
Giudicate voi.
(Da: Israel HaYom, 13.9.16)