Prima che corrispondenti, politici, studiosi e agenti di sicurezza francesi si concentrassero su Daesh (ISIS), al-Qaeda e i pericoli dei jihadisti di ritorno, c’era David Thomson.
Nove mesi prima degli attacchi a Charlie Hebdo e Hyper Cacher, avvenuti nel gennaio 2015, Thomson, un corrispondente per Radio France Internationale che aveva trascorso anni in Nord Africa costruendo una rete di contatti nelle cerchia jihadiste, appariva spesso nella TV nazionale.
Aveva dichiarato, in un dibattito sui combattenti francesi in Siria, che alcuni combattenti con cui era in contatto e che erano in viaggio in Medio Oriente erano determinati a tornare in patria e attaccare la Francia. Non fu preso sul serio, anzi, fu deriso da alcuni.
A due anni dalla trasmissione, dopo i diversi attacchi terroristici sul suolo nazionale, 13 mesi di fila di stato di emergenza e le elezioni presidenziali in arrivo, Thomson è diventato l’intellettuale più popolare della Francia.
Con il suo ultimo libro, Les Revenants, uscito a dicembre 2016 e subito sold-out, si è guadagnato la prima pagina su Le Monde.
Il libro è una raccolta di interviste condotte nel corso di due anni a 20 soggetti incontrati personalmente in prigioni, case, ristoranti di kebab in Francia o raggiunti telefonicamente.
L’autore, che negli ultimi dieci anni ha parlato a più di 100 jihadisti soprattutto francesi, usando le loro stesse parole, designa un quadro di combattenti sedotti dall’idea di un’esperienza edonistica, violenta e trascendente, che Thomson chiama “LOL jihad”, e che sono tornati dal califfato spesso delusi, impenitenti, e in alcuni casi pronti a rifare tutto di nuovo.
Ad attirare così tanta attenzione è il verdetto di Thomson – e dei suoi soggetti – sul tema caldo del ruolo dell’Islam.
Il senso di umiliazione di una minoranza emarginata, la discriminazione, e la furia post-coloniale; padri assenti e traumi famigliari; il pendio scivoloso tra la delinquenza giovanile e la “guerra santa”; e la promessa di un paradiso sessuale – tutti questi sono elementi importanti per spiegare il jihad in Francia, sostiene.
Tuttavia, niente di tutto questo sarebbe sufficiente senza il ruolo importante e troppo spesso respinto della religione e delle convinzioni politico-spirituali, in particolare, la dura linea salafita saudita della dottrina islamica wahabita, che hanno gettato le fondamenta del jihadismo violento e che spiegano il motivo per cui è improbabile che se ne possa mai riemergere.
Figure di fama internazionale come i politologi Gilles Kepel e Olivier Roy sono impegnate in una battaglia feroce per valutare se la Francia dovrebbe interpretare il suo problema del jihad come “l’islamizzazione del radicalismo” (Roy) – vale a dire, l’Islam non è la causa – o “la radicalizzazione dell’Islam “(Kepel) – sì, lo è.
Ma la lotta tra gli studiosi rivali è rimasta principalmente all’interno dei circoli d’élite ed entrambe le visioni sono state soggette a critiche. Sembra che Les Revenants sia diventato un “fenomeno editoriale,” che ha “riconciliato Kepel e Roy”, scrive Devecchio su Le Figaro.
E aggiunge: ”Il jihadismo ‘made in France’ è il frutto dell’incontro tra l’Islam radicale e l’era del vuoto. Il figlio ibrido di un’utopia assassina e di un’epoca disincantata.”
È diventato pensiero comune che i jihadisti occidentali di oggi abbiano un passato profano. Ma quasi tutti i combattenti di ritorno nel libro di Thomson hanno ricevuto un’educazione religiosa da bambini.
Il settanta per cento provengono da famiglie musulmane spesso conservatrici.
Molti di loro hanno incontrato figure, nelle moschee o tra conoscenti, che hanno contribuito alla loro radicalizzazione.
La maggior parte dice di essersi avvicinata prima al salafismo non violento, emulando i “pii predecessori” dal tempo del Profeta, per poi avviarsi verso il jihad armato.
Il movimento salafita ha attirato un numero crescente di adepti in Francia negli ultimi dieci anni, con i suoi valori fondamentalisti estremi di “rottura” con la società tradizionale.
Le affermazioni di Thomson sull’impossibilità allo stato attuale di una deradicalizzazione dei jihadisti sono già state prese in considerazione dalle autorità francesi. “Nessuno sa come risolvere il problema” ha dichiarato a Slate.
“L’Europa è condannata a subire le conseguenze degli errori commessi dal 2012, quando centinaia di francesi sono partiti per la Siria e l’Iraq senza essere visti né fermati e lì hanno creato le loro basi, con intenzioni terroristiche”.
La salafiyya (in arabo: ﺳﻠﻔﻴـة), o salafismo, è una scuola di pensiero sunnita che prende il nome dal termine arabo salaf al-ṣaliḥīn (“i pii antenati”) che identifica le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo): i Ṣaḥābi (i “Compagni” di Maometto), i Tābiʿūn (i “Seguaci”, la generazione successiva a quella del Profeta) e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn (“Coloro che vengono dopo i seguaci”, la terza generazione), tutti considerati dai salafiti modelli esemplari di virtù religiosa.
Punti di riferimento nella storia dei movimenti salafiti sono tre autori e studiosi della Sunna a cui è comunemente attribuito il titolo onorifico di “Shaykh al-Islam“: Aḥmad b. Ḥanbal (780-855), Ibn Taymiyya (1263–1328) e Muḥammad b. ʿAbd al-Wahhāb (1703-1792).
Sebbene il termine salafi (in arabo: سلفي) sia ben attestato già nel periodo classico, essendo utilizzato da eminenti studiosi di ḥadīth come al-Dhahabi (1274–1348), per qualificare come “ortodossa” la posizione teologica di autori precedenti, l’accezione moderna di questo termine, secondo alcuni storici dell’Islam, fa riferimento innanzitutto a un movimento revivalistico sorto nella seconda metà del XIX secolo in Egitto, come reazione alla diffusione della cultura europea e con l’intento «di rivelare le radici della modernità all’interno della civiltà islamica».
Questa definizione del salafismo si riconduce, in particolare, ad autori come Muḥammad ʿAbduh e Jamāl al-Dīn al-Afghānī al-Asadābādī, importanti intellettuali dell’Università al-Azhar e fondatori del movimento culturale e politico conosciuto come Iṣlāḥ (lett. “Riforma”, da cui il movimento del riformismo islamico) e all’intellettuale siriano Rashid Rida.
Il termine salafismo è diventato nel tempo, tuttavia, abbastanza ambiguo, perché se inizialmente il movimento era decisamente aperto al confronto con l’Occidente non-musulmano (è nota la “Fatwā del Transvaal” di Muḥammad ʿAbduh – che suscitò la forte opposizione degli ambienti islamici più conservatori – che prendeva posizione sulla liceità per un musulmano di cibarsi in certe condizioni di carni di un animale non macellato secondo la normativa islamica), già nella seconda metà del XX secolo esso rappresentava di fatto un sinonimo del Wahhabismo.
Questa trasformazione non deve sorprendere più di tanto.
Comune al primo salafismo e al fondamentalismo era infatti la volontà di affrancare il mondo islamico dalla sua sudditanza, psicologica e politica, nei confronti dell’Occidente non-musulmano, anche se le due correnti di pensiero divergevano poi decisamente per metodo e strumenti operativi.
Sinteticamente si può dire che il Fondamentalismo abbia trovato alimento nel salafismo, allontanandosene essenzialmente per una diversa interpretazione della rivelazione coranica, ma non per le finalità da raggiungere.
Il salafismo delle origini era anch’esso un movimento profondamente e sinceramente religioso, che si batteva per il recupero di un Islam “puro” da incrostazioni sovrastrutturali, fautore di una lettura meno intellettualistica del Corano, ostile per un verso a una sua lettura troppo letteralistica, che rischiava concretamente di sfociare in vera e propria offesa alla ragione umana, ma per un altro verso anche alla dottrina di alcune correnti sufi, giudicata troppo ambigua e assertrice di una lettura esageratamente allegorica e potenzialmente fuorviante del portato coranico per essere accettata dai salafiti.
Molti salafiti di oggi pensano invece che la loro letterale lettura della Legge coranica sia non solo corretta ma più adeguata alle necessità del presente.
Rifiutano la lettura fornita dai primi salafiti (i riformisti islamici) che a loro parere tracimava facilmente in una inammissibile «libera interpretazione» del testo sacro, preferendo fare riferimento piuttosto a figure fondamentaliste come Ibn Taymiyya − importante teologo ḥanbalita siriano del XIII secolo e fervente sostenitore del Jihād − e come Ibn Qayyim al-Jawziyya che ai teorici di fine Ottocento del movimento.
Una corrente numerosa del salafismo tra le due guerre mondiali guarda, quindi, con forte interesse all’opera ideologica del propagandista religioso Muḥammad b. ʿAbd al-Wahhāb, il cui richiamo alle pratiche delle prime generazioni di musulmani aveva dato origine al movimento wahhabita, un movimento fondamentalista iper-conservatore, profondamente legato – per tutta una serie di vicende storiche e politiche – alla casa regnante dell’attuale Arabia Saudita e che affronta il ritorno alle origini della Sunna in chiave del tutto anti-modernista.