I governi occidentali non fecero nulla per tutelare i loro cittadini ebrei quando i regimi arabi li bandirono dai propri paesi
Mentre seguivo l’infuocato dibattito sull’ordine esecutivo del presidente Usa Donald Trump, denunciato dai suoi avversari come il “bando dei musulmani”, non ho potuto non ripensare a un altro bando che non suscitò nessun dibattito, e che cambiò in modo determinante la carriera del mio mentore, Bernard Lewis.
Lewis, il grande storico del Medio Oriente che lo scorso maggio ha compiuto 100 anni, verso la fine degli anni ‘30 e ’40 viaggiava molto nei paesi arabi. Nato in Gran Bretagna da genitori nati in Gran Bretagna, percorse la Siria sotto governo francese per il suo lavoro di dottorato, e poi prestò servizio nell’esercito britannico in terre arabe durante la seconda guerra mondiale. Nel 1949, all’età di 33 anni, era già considerato un’alta autorità accademica sull’islam medievale, professore ordinario presso l’Università di Londra. L’ateneo gli accordò un anno di congedo per studio da impiegare in Medio Oriente. Ma la feroce reazione araba alla nascita dello stato d’Israele fece deragliare tutti i suoi progetti di ricerca.
Lewis ha spiegato quello che accadde in un articolo pubblicato nel 2006: “Praticamente tutti i governi arabi annunciarono che non avrebbero concesso visti d’ingresso agli ebrei di qualsiasi nazionalità. Non si trattava di una mossa furtiva: fu una misura pubblica, esplicitamente dichiarata sui moduli per la domanda dei visti e nella pubblicistica turistica. Misero perfettamente in chiaro che alle persone di religione ebraica, non importa di quale cittadinanza, non sarebbe stato concesso il visto né sarebbe stato consentito l’ingresso in qualunque paese arabo indipendente. Non si levò nessuna parola di protesta, da nessuna parte.
Si può solo immaginare l’indignazione che si sarebbe levata se Israele avesse annunciato che non avrebbe concesso visti d’ingresso a tutti i musulmani, o se l’avessero fatto gli Stati Uniti. Invece quel divieto, in quanto diretto contro gli ebrei, venne visto come perfettamente naturale e normale. In alcuni paesi permane ancora oggi, nel silenzio generale, anche se in pratica la maggior parte paesi arabi vi hanno rinunciato. Né le Nazioni Unite né l’opinione pubblica protestarono in qualche modo contro quei divieti, per cui non sorprende il fatto che i governi arabi ne dedussero che avevano luce verde per provvedimenti di quel genere o anche peggiori”.
Nelle sue memorie, Lewis ha scritto che alcuni ebrei elusero la loro identificazione religiosa sulle domande di visto (un’ingegnosa signora di New York arrivò a definirsi “avventista della Settima Avenue”). Altri semplicemente mentirono. “Ma la maggior parte di noi, anche non religiosi – continua Lewis – trovava moralmente intollerabile scendere a tali compromessi al solo scopo di perseguire una carriera accademica. Il che riducesse notevolmente il numero di paesi dove potevamo andare a studiare e lavorare. A quel tempo, per gli studiosi ebrei interessati al Medio Oriente restavano accessibili solo tre paesi: Turchia, Iran e Israele. Accadde così che mi adattai a trascorrere l’anno accademico 1949-50 in questi tre paesi”.
Col senno di poi, fu una fortuna che Lewis fosse costretto ad adattarsi in quel modo: divenne infatti il primo storico occidentale ammesso agli archivi Ottomani di Istanbul, e il suo lavoro pionieristico in quel settore ha aperto un vasto campo di ricerche. Tuttavia, la sua esclusione in quanto ebreo chiaramente bruciava. Era qualcosa che non aveva subìto in Gran Bretagna, eppure i governi occidentali non fecero nulla per difendere i loro cittadini ebrei ed esigere che venisse riconosciuta loro parità di trattamento.
Negli anni ’50 le cose peggiorarono. Non solo gli stati arabi non facevano più entrare gli ebrei di altri paesi, ma iniziarono a cacciare in esilio i loro stessi cittadini ebrei. Un fenomeno che potrebbe essere stato all’origine degli studi che portarono Lewis a pubblicare nel 1986 il libro Semiti e antisemiti, uno dei primi ad analizzare le continue metamorfosi dell’antisemitismo nel mondo arabo (ripubblicato in italiano da Rizzoli nel 2003).
Oggi, quasi tutti gli stati arabi non vietano più l’ingresso degli ebrei in quanto tali. Ma continuano a vietare l’ingresso ai cittadini israeliani. In effetti, sei dei sette stati che compaiono nell’ordine esecutivo di Trump (Iran, Iraq, Libia, Sudan, Siria e Yemen) vietano l’ingresso a qualunque titolare di passaporto israeliano, così come fanno altri dieci paesi a maggioranza musulmana. Non basta. Gli stessi sei paesi non ammettono l’ingresso di cittadini non israeliani che abbiano sul passaporto un visto israeliano. Non mi risulta che la comunità internazionale abbia mai considerato questo comportamento come un oltraggio particolarmente clamoroso alle norme internazionali. I governi di questi paesi considerano ogni cittadino israeliano, sia ebreo che arabo, e ogni cittadino di qualsiasi nazionalità che abbia messo piede in Israele, come una minaccia alla loro sicurezza potenziale. Cosa perfettamente logica, dal momento che alcuni di questi governi sono quelli che notoriamente minacciano Israele attraverso l’istigazione all’odio, la sponsorizzazione del terrorismo, i piani per armamenti quantomeno controversi.
L’ordine esecutivo di Trump è ben lontano dal bando totale degli ebrei (e degli israeliani, e dei turisti che sono stati in Israele) che segnò la carriera di Bernard Lewis. E vi sono validi argomenti per contestarne l’assennatezza, l’efficacia e anche la moralità. C’è da sperare che gli Stati Uniti, che a partire dall’11 Settembre hanno investito somme incalcolabili nella raccolta di informazioni di intelligence, siano in grado di operare distinzioni fra amici e nemici, fra vittime e carnefici, all’interno delle varie nazioni. Ma i governi di stati come l’Iran hanno poco da fare gli indignati. Nessuno quanto loro ha praticato un’esclusione universale in base alla nazionalità, incessantemente, decennio dopo decennio: e non sembra che abbiano alcuna intenzione di rinunciarvi tanto presto.
Sarebbe un vero peccato se questo atteggiamento di chiusura diventasse la norma nel mondo. Ma in Medio Oriente non sarebbe certo una novità.
(Da: Israel HaYom, 6.2.17)