Si pretendono da Israele standard che nessun paese “normale” potrebbe soddisfare. E non sempre la pretesa nasce da ragioni limpide e oneste
Ecco una frase che sento ripetere spesso: Israele, si dice, è una democrazia malata. A settant’anni dall’indipendenza, dicono questi critici, il suo sistema di governo è un totale disastro.
Perlopiù questi detrattori – e fra loro non mancano ebrei colti e informati – avanzano tre argomenti. Innanzitutto additano il sistema di governo basato su coalizioni.
Il che, spiegano con sussiego, significa attribuire un potere di veto e dunque di estorsione a partiti piccoli come quelli ultra-ortodossi che siedono nell’attuale governo.
Quando ogni partito è in grado di far cadere il governo, la capacità del primo ministro di avviare importanti riforme diplomatiche, economiche o sociali ne risulta severamente limitata.
In secondo luogo, fanno riferimento ai diritti delle minoranze israeliane, che per la maggior parte di costoro si riducono a un unico insieme, gli arabi palestinesi:
dimenticandosi che una grossa parte di questi (due milioni, comprese ulteriori minoranze interne come i cristiani, i drusi, i beduini) hanno la cittadinanza israeliana e si trovano in una condizione radicalmente diversa da quella dei circa cinque milioni di arabi palestinesi che non hanno cittadinanza israeliana perché vivono (sotto regimi diversi) in Cisgiordania e a Gaza.
Israele, viene detto con tono scandalizzato, è un paese razzista dove i diritti delle minoranze vengono calpestati quotidianamente.
Poco importa se 13 deputati su 120 sono arabi, se un arabo druso è stato recentemente nominato nello stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane, se un giudice arabo cristiano ha presieduto la Corte che ha condannato al carcere un ex primo ministro (ebreo).
Queste persone diranno comunque che Israele è un paese malato, punto e basta.
Il terzo argomento che si sente spesso fa riferimento all’attuale primo ministro, Benjamin Netanyahu, che secondo questi critici è a capo del governo da troppo tempo.
In America, ricordano, un presidente non può servire più di mandati consecutivi. Israele, dicono, dovrebbe adottare un modello analogo.
Spesso mi interrogo sulle fonti di questi critici.
I lettori abituali del Jerusalem Post come degli altri mass-media del paese sanno bene che noi israeliani non esitiamo a criticare il nostro governo o i nostri leader, in termini anche molto forti.
In realtà, lo facciamo ogni giorno e con ogni mezzo.
Ma riconosciamo anche che lo stato d’Israele è un’entità viva (e vivace, Dio solo sa quanto), che ha difetti non diversi da quelli di qualsiasi altra democrazia, specialmente di una democrazia che deve ogni giorno fare i conti con le minacce alla sicurezza che derivano dal fatto di trovarsi nel mezzo del Medio Oriente.
Israele è un paese giovane e talvolta immaturo, ma è anche dinamico, vibrante, versatile e capace di incredibili realizzazioni.
Nel corso degli anni ho avuto l’opportunità di viaggiare un po’ in tutto il mondo, in alcuni casi come rappresentante del governo israeliano, ma soprattutto come giornalista.
Ho incontrato politici e funzionari governativi in Argentina, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Indonesia, Cina, Australia, Brasile, Stati Uniti e altrove.
Tutti hanno un sacco di problemi, quando si tratta di politica interna e dei rispettivi sistemi di governo. Non ho mai sentito nessuno dire che il proprio sistema di governo è perfetto e che dovrebbe essere adottato dagli altri.
Di solito, tutti se ne lamentano. Si dia un’occhiata anche solo alle recenti elezioni in giro per il mondo. Negli Stati Uniti, Donald Trump è diventato presidente nonostante abbia perso nel voto popolare.
In Gran Bretagna, Theresa May ha dovuto istituire un governo di minoranza che si regge sul sostegno esterno del Partito Democratico Unionista.
In Germania, Angela Merkel è riuscita a malapena a varare un governo dopo cinque mesi di mercanteggiamenti.
In Austria e in altri paesi l’estrema destra è in aumento in elezioni libere e democratiche [per non dire del risultato delle elezioni in Italia, tenute dopo che è stato scritto questo articolo]. Sono sistemi perfetti?
Tutt’altro. E allora, perché queste critiche esagerate al sistema israeliano come se fosse il più disastroso al mondo?
Penso che la cosa abbia a che fare con una percezione non realistica dello stato ebraico, unita ad aspettative non realistiche sul suo sistema di governo.
Disgraziatamente questi critici considerano lo stato ebraico come qualcosa di mitico, e non come un paese “normale” che deve fare i conti con gli stessi problemi di tutti gli altri.
Non riescono a capire che, se è verto che Israele ha a che fare con alcune sfide del tutto uniche in particolare nel campo della sicurezza, tuttavia non è diverso da qualsiasi altro paese democratico al mondo per quanto riguarda tutte le altre questioni politiche.
Può darsi che appaiano diverse o che si presentino con colori e toni differenti, ma in sostanza sono le stesse cose.
Pensare a Israele come a uno stato mitico non corrisponde alla realtà e deriva da una visione romantica di ciò che sono Israele e il popolo ebraico.
Certo, dobbiamo sempre sforzarci di essere migliori ricordando l’impegno ebraico di essere come un “faro fra le nazioni”.
Ma una democrazia come Israele non potrà mai essere all’altezza di uno standard così elevato. È impossibile per qualsiasi paese.
Questa visione mitica deriva da un fraintendimento su ciò che Israele avrebbe dovuto essere. Sì, il sionismo consiste nel garantire agli ebrei il diritto all’autodeterminazione.
Ma uno stato del XXI secolo deve concretamente preoccuparsi dei prezzi delle case, del costo della vita, degli ingorghi stradali, dell’assistenza sanitaria, della sicurezza, delle aliquote fiscali e di tutto ciò con cui i governi si cimentano quotidianamente.
Tutte e tre le critiche sopra delineate derivano dal fatto che Israele è una democrazia. Netanyahu può sembrare ad alcuni che sia primo ministro da troppo tempo, ma dobbiamo ricordare che è stato eletto con votazioni libere e corrette.
La maggioranza della popolazione israeliana lo ha ripetutamente scelto come leader.
Il sistema delle coalizioni può rendere difficile l’arte del governo, ma è un sistema che esiste in molti paesi in tutto il mondo e non è certo un’esclusiva di Israele.
E sui diritti delle minoranze (che possono democraticamente avanzare le loro rivendicazioni), Israele può certamente migliorare, ma già oggi è l’unico posto in Medio Oriente, e uno dei pochi al mondo, dove c’è libertà per tutte le religioni e dove si possono trovare membri delle minoranze in tutti i settori della società.
Gli Stati Uniti, ad esempio, una democrazia che ha 242 anni, è un posto in cui il razzismo continua a imperversare ancora oggi.
Non mi si fraintenda. Non sto facendo l’avvocato d’ufficio di nessuno.
Sono convinto che i cittadini di un paese abbiano il diritto di aspettarsi sempre di più dal loro governo.
In Israele abbiamo davvero il problema che i partiti piccoli esercitano troppo potere e possono ricattare il governo su questioni importanti come quelle relative al rapporto fra religione e stato.
Ad esempio, i partiti ortodossi Shas ed Ebraismo Unito della Torah vogliono impedire l’apertura dei supermercati di Shabbat (sabato) e la creazione di una zona di preghiera per non ortodossi al Muro Occidentale (“del pianto”).
Personalmente sono contrario a queste loro posizioni.
Ma riconosco che questo è il sistema di governo in vigore in Israele: può essere difettoso, ma lo sono anche i sistemi in vigore negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania.
Perché allora questa visione mitica di Israele?
Dipende dalle persone di cui stiamo parlando. Per una serie di motivi, compresi i secoli di persecuzioni subite, gli ebrei tendono a puntare a uno standard elevato: vorremmo poter essere sempre fieri dei nostri risultati.
Quando vediamo che lo stato ebraico è uguale agli altri, automaticamente rimaniamo delusi.
Questo sentimento è reso più acuto dal fatto che Israele è stato fondato poco dopo la Shoà: un successo che ha del miracoloso, chiamato a rispondere a un obiettivo e una visione immani.
Quando non lo fa, genera un automatico senso di colpa.
Ma Israele è un paese normale. Sì, è lo stato nazionale ebraico, ma – come ebbe a dire David Ben Gurion – ha ladri e prostitute esattamente come li hanno i Paesi Bassi, la Cina e l’America.
I non ebrei hanno le loro ragioni per criticare Israele in modo spropositato. Alcuni semplicemente coltivano sentimenti antisemiti e, di conseguenza, odieranno Israele sempre e comunque, qualunque cosa faccia.
Altri fanno fatica a conciliare la sua natura di stato nazionale del popolo ebraico con la concezione del mondo liberale e cosmopolita oggi prevalente fra le élite occidentali.
E’ importante tener presente tutto questo, specialmente quando Israele si avvicina al 70esimo anniversario della sua indipendenza.
Le minacce che Israele deve affrontare sono concrete e immense, ma sono anche cambiate.
Nel 1948, nel 1967 e nel 1973 si temeva concretamente che Israele venisse spazzato via, che Egitto e Siria potessero conquistarne il territorio e rappresentassero quindi una minaccia esistenziale per l’intero stato.
Oggi, ovviamente, le cose stanno in modo diverso. Israele è in pace con l’Egitto e l’esercito convenzionale siriano si è in gran parte disintegrato.
Certo, Hamas e Hezbollah hanno accumulato arsenali spaventosi, ma tutti i loro razzi e missili, per quanti danni e vittime possano causare (e ne possono causare molti), non possono conquistare e tenere un singolo kibbutz o moshav lungo i confini d’Israele.
Resta il fatto che un giorno, neanche troppo lontano, Israele potrà trovarsi di nuovo in guerra con questi nemici:
e finché Israele sarà percepito in termini mitici, sarà destinato comunque a “sbagliare”.
Costretto a combattere ancora una volta per difendere i propri cittadini, ancora una volta sarà subissato dalla consueta marea di critiche e condanne.
E senza alcuna vera relazione con ciò che Israele farà davvero, né con il modo sconcio in cui i suoi nemici abusano cinicamente dei civili, propri e altrui.
Sappiamo già sin d’ora che, in ogni caso, Israele verrà accusato di ricorrere a un uso sproporzionato della forza, di perpetrare crimini di guerra, e comunque di non aver fatto abbastanza per evitare il conflitto.
Reportage e rapporti, durante e dopo quella guerra, sono così prevedibili che potremmo scriverli già oggi.
Israele ha diritto alla chance di riuscire e vincere. Non solo sul campo di battaglia, ma anche dentro il paese dove deve affrontare sfide sociali ed economiche.
Perché ciò accada, i critici di Israele devono finalmente guardare allo stato ebraico per quello che è realmente: un paese con i suoi difetti come tutti gli altri, ma abitato da un popolo che continua a battersi instancabilmente per fare sempre meglio.
(Da: Jerusalem Post, 8.2.18)