Italia Vs EU : Riserve auree – Debito Pubblico Insostenibile… ci sarà l’ecatombe ?

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2039

Il concetto di riserva aurea nazionale si è evoluto con il trascorrere dei decenni.

In passato le riserve auree venivano accumulate dai governi principalmente per far fronte ai costi della guerra, e nella maggior parte delle epoche la politica governativa enfatizzava in maniera particolare l’acquisizione e la detenzione di cosiddetti “tesori”.

Le banche, in passato, accumulavano riserve d’oro per riscattare le loro promesse di pagare i loro depositanti in oro.

Durante il diciannovesimo secolo quindi queste banche soppiantarono i governi come i principali detentori delle riserve auree.

Le banche commerciali hanno ricevuto depositi soggetti a rimborso in oro su richiesta e hanno emesso poi banconote (ossia cartamoneta) riscattabili in oro, sempre su richiesta; quindi ogni banca doveva tenere una riserva di monete d’oro per soddisfare le richieste di rimborso ove mai queste venissero reclamate.

Nel corso del tempo, tuttavia, la parte preponderante delle riserve auree si è spostata sulle banche centrali.

Questo è successo perché le banconote delle banche commerciali erano state sostituite interamente o in buona parte da banconote della banca centrale, le banche commerciali avevano dunque bisogno di poco o nessun oro per il rimborso delle banconote.

Le banche commerciali si trovarono così in seguito anche a dipendere dalla banca centrale per l’oro necessario per soddisfare le richieste dei loro depositanti.

Negli anni ’30,in seguito, molti governi hanno richiesto alle loro rispettive banche centrali di consegnare tutte le loro riserve auree al tesoro nazionale.

Ad esempio, negli Stati Uniti, il Gold Reserve Act del 1934 stabiliva che il Tesoro degli Stati Uniti avrebbe dovuto prendere il titolo di tutte le monete in oro, lingotti d’oro e certificati d’oro detenuti dalle banche centrali della Federal Reserve,fornendo certificati d’oro di nuovo tipo e oro crediti sui suoi libri in cambio.

 Il Tesoro degli Stati Uniti ha collocato la maggior parte della sua riserva d’oro a Fort Knox.

Comunque c’è da dire che non tutti i governi hanno “nazionalizzato” l’oro, con il risultato che lo status delle riserve auree ad oggi varia da paese a paese.

Oro come base di valore indegradabile

L’Oro è da sempre utilizzato come “riserva monetaria”, poiché la Storia ci insegna che è stato utilizzato come denaro.

Un bene al portatore e facilmente divisibile.

Per mezzo del suo peso e della sua purezza è facile determinarne il valore, inoltre è INDISTRUTTIBILE.

E’ da sempre accettato come metodo di pagamento grazie alla sua facile riconoscibilità. 

L’oro non è soggetto al rischio di solvibilità in quanto non è “emesso” da alcuna autorità (ad esempio, governo o banca centrale).

Inoltre, l’oro presenta una serie di caratteristiche che lo contraddistinguono da gran parte dei metalli presenti in natura.

Allo stato puro è quasi del tutto incorruttibile, non arrugginisce e non si ossida, è facilmente trasportabile e conservabile ed è agevolmente lavorabile grazie alla sua elevata duttilità.

Queste peculiari caratteristiche, sommate alla scarsità in natura, hanno reso storicamente l’oro uno strumento efficace per misurare il valore dei beni e come mezzo di pagamento.

Alla luce delle sue caratteristiche e delle sue funzioni specifiche, l’oro può essere utilizzato dalle banche centrali per diversi motivi: l’acquisto o la vendita dell’oro possono essere effettuati sia per scopi finanziari, sia per variare il livello delle riserve; l’oro può essere poi dato in deposito per ricavare un reddito e infine può essere utilizzato come garanzia per ottenere dei prestiti sul mercato.

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, tale materia prima ebbe un ruolo di riferimento nei cosiddetti accordi di Bretton Woods, diventando un punto fermo in un mercato in cui il dollaro era ancorato all’oro.

Infatti, nel 1944 i rappresentanti di 44 Paesi si riunirono a Bretton Wood, dando così luogo alla nascita del Fondo Monetario Internazionale (F.M.I) e alla Banca Mondiale.

I compiti principali di tale conferenza furono quelli di creare le condizioni per una stabilizzazione dei tassi di cambio rispetto al dollaro, il quale veniva considerato valuta principale, ed eliminare le condizioni di squilibrio determinate dai pagamenti internazionali.

Si trattava di una serie di accordi volti a definire le procedure idonee per il controllo della politica monetaria internazionale.

Il sistema, però, venne abbandonato nel 1971.

Il primo paese a legalizzare la negoziazione del metallo giallo fu la Francia nel 1948, seguita dalla Svizzera nel 1951.

 Alla fine degli anni Sessanta – inizio anni Settanta si ebbe la vera e propria apertura del libero mercato aureo, periodo in cui vi fu una profonda crisi del dollaro e, quindi, molti operatori si riversarono sull’acquisto dell‟oro.

Fu proprio in questo contesto che vennero creati i primi strumenti di investimento legati al metallo prezioso, i quali si moltiplicheranno negli anni successivi con l’introduzione del trading telematico.

Nel periodo 1979– 1982, in cui vi sono state la guerra in Medio Oriente, la recessione economica negli Stati Uniti e un periodo di stagflazione, si è giunti al“flight – to- quality”  , ovvero quel fenomeno in cui gli investitori, percependo tensioni sui mercati, vendono i titoli rischiosi e comprano attività sicure, ad esempio i Titoli del Tesoro statunitensi.

Gli anni Duemila,invece, sono stati caratterizzati da una cosiddetta “corsa all’oro”, che si è protratta per un decennio circa, nel quale il metallo prezioso ha triplicato il suo valore arrivando ad una quotazione di 1920 $/oncia nell’estate del 2011.

Successivamente, una serie di fattori, tra cui la speculazione, ha portato alla discesa dei prezzi nel biennio successivo, arrivando a toccare 1321 $ il 15 Aprile 2013.

Nelle varie turbolenze avute negli anni, come le crisi petrolifere e la guerra in Medio Oriente, l’oro ha assunto il ruolo di “bene rifugio”.

Non vi è una definizione univoca di cosa sia un bene rifugio, ma sostanzialmente con tale espressione vengono indicati tutti gli investimenti che conservano il loro valore nel tempo, nonostante i periodi di incertezza o di elevata inflazione.

 Infatti, il metallo giallo viene considerato da sempre il bene rifugio per eccellenza grazie alle sue proprietà di stabilità e universalità; in ogni epoca è stato considerato come una sorte di assicurazione sul patrimonio, essendo in grado di resistere nei momenti di crisi e, per lungo tempo, è stato preso come riferimento nelle monete nazionali.

Da notare anche la relazione dell’oro con i tassi di interesse: il suo prezzo aumenta quando i tassi di interesse nominali (e reali) sono in diminuzione.

Nonostante la sua fisicità, esso rimane un investimento finanziario e, a differenza di obbligazioni e azioni, non produce flussi di cassa e pertanto non ha un suo valore intrinseco.

Il metallo giallo, oltre a rappresentare un bene finanziario, viene impiegato in vari settori, quali l’oreficeria e il settore industriale.

L’oreficeria rappresenta circa i due terzi della domanda mondiale di oro.

Il mercato più grande in tale settore è quello dell’India, dove ha una particolare importanza soprattutto nei matrimoni.

Grazie ad una serie di proprietà, come l’elevata resistenza alla corrosione e alla conduttività elettrica, esso viene molto utilizzato nel settore elettronico, ad esempio nei motori jet, nei computer e in tutti gli apparecchi per telecomunicazioni.

Trova anche applicazione in campo medico, soprattutto nell’odontoiatria, in campo fotografico e astronautico.

L’oro assume anche il ruolo di riserva monetaria.

Infatti, è proprio tale funzione che spinge le banche centrali ad incrementare le proprie riserve auree a garanzia del denaro stampato e immesso nel sistema economico.

Il World Gold Council, un’associazione che si occupa dello sviluppo e delle problematiche legate all’oro, ha individuato sette fattori che incidono sul valore del metallo giallo:

1. Valute. L’oro presenta una correlazione negativa con il dollaro e altre valute di paesi sviluppati. Infatti, il metallo rappresenta una buona copertura contro la debolezza del dollaro. Ad esempio, un calo di tale valuta aumenta il potere d’acquisto dei paesi non appartenenti all’area del dollaro, facendo salire il prezzo dell’oro come accaduto alla fine degli anni Settanta.

2. Inflazione.Una variabile come l’inflazione condiziona il potere di acquisto delle persone e quindi incide sul consumo e sul risparmio; di conseguenza, ciò ha un forte impatto sulla domanda aurifera. Come sottolineano le ricerche di Oxford Economics (2011) e Ventura Commodities (2013) , l’oro si comporta bene sia nei periodi di inflazione che in quelli di deflazione finché l’incertezza del mercato è alta. Quando i mercati si stabilizzano, invece, vi è un calo del prezzo dell’oro.

3. Tassi d’interesse. Il livello dei tassi di interesse reali è un altro fattore che può influenzare i prezzi dell’oro. I tassi di interesse misurano il costo opportunità di tenere il proprio capitale liquido invece che investirlo. Il costo opportunità di detenere oro aumenta con l’aumentare del tasso di interesse reale e diminuisce invece nel caso contrario.

4. Reddito e consumi. Una maggiore ricchezza porta ad un maggiore consumo di beni, quali lingotti, gioielli e applicazioni tecnologiche, e quindi ad una crescente domanda di metallo giallo.

5. Rischio di coda (Tail risk). Il rischio di coda in genere è causato da una grave crisi economica o finanziaria imprevista, creando uno shock sistemico che in poco tempo crea panico sui mercati. Ovviamente, situazioni di stress sui mercati conducono gli investitori verso attività finanziarie molto liquide e meno esposte ai rischi.

6. Flussi a breve termine. Il prezzo dell’oro può essere influenzato anche dai flussi in entrata e in uscita che sfruttano il cosiddetto momentum.

7. L’offerta di oro fisico. Anche il lato dell’offerta può influenzare il prezzo dell’oro. Ad esempio, una diminuzione della capacità estrattiva delle aziende del settore potrebbe spingere al rialzo le quotazioni.

I principali mercati dell’oro

Tra i mercati di scambio dell’oro fisico quello di Hong Kong è il più antico, fondato nel 1910.

La principale distinzione dagli altri mercati è che qui le quotazioni si sono sempre basate sulle oscillazioni tra domanda ed offerta.

Inoltre, la forza di questo mercato sta nella sua posizione geografica in quanto funziona quandogli altri mercati, come quello di Londra, sono chiusi ed è anche l’unico che opera di sabato.

Hong Kong ha sempre svolto un ruolo fondamentale nel mercato dell’oro mondiale, e in particolare per quello cinese. È stato il principale punto di ingresso per l’importazione di oro nel paese.

Recentemente, invece, i grandi volumi di metallo giallo arrivano attraverso Shanghai.

Nel 1993, per espandere le sue riserve auree, la Cina ha allentato le regolazioni e ha apertola frontiera alle miniere estere.

Nel 2013 il Paese si è posizionato non solo come il primo produttore, ma anche come primo consumatore di oro al mondo.

In questo anno,la domanda di oro in Cina è stata eccezionale, in quanto sia i compratori di gioielli che gli investitori hanno sfruttato il vantaggio derivante dalla caduta consistente dei prezzi nazionali del metallo prezioso.

Gli investimenti nei metalli preziosi sono aiutati indubbiamente dalla limitata selezione di forme alternative di risparmio in Cina.

In questo Paese,infatti, le persone considerano l’oro come un incremento della ricchezza complessiva della nazione.

Ed è proprio la considerazione che i cinesi hanno riguardo a tale materia prima che ha portatola Cina ad essere il primo Paese nel mercato fisico dell’oro, sia nella produzione che nel consumo di metalli preziosi.

Inoltre, è anche il più grande importatore di lingotti. Nel 1950, la proprietà privata di lingotti fu vietata e l’industria aurifera venne posta sotto il controllo dello Stato.

Cinquant’anni dopo circa, la Banca Popolare Cinese, che svolge la funzione di banca centrale, abbandonò il suo monopolio sull’acquisto, sull’allocazione e sul prezzo dell’oro.

Da notare che la crescita della Cina dal 1980 è stata notevole. Infatti, in trent’anni circa, si è trasformata da un Paese povero in via di sviluppo in un Paese di reddit

o medio. Infatti, con Deng Xiao Ping nel 1978 vi è stato l’inizio di un programma di riforme economiche che ha portato allo sviluppo sempre crescente della nazione.

In tale anno il reddito pro capite cinese era poco più di 200 $ fino ad arrivare, nel 2013, a 6850 $.

 La fine del monopolio della Banca Popolare Cinese e la creazione dello Shanghai Gold Exchange (SGE) hanno accelerato lo sviluppo del mercato dell’oro dal 2002 in avanti.

Lo Shanghai Gold Exchange ha iniziato la sua attività nell’ottobre del 2002.

Un’ulteriore liberalizzazione è avvenuta nel 2003 quando il sistema di licenze per l’esecuzione di attività in prodotti d’oro e argento fu abolito e nel 2004 fu permesso al settore privato di detenere e negoziare lingotti.

Nel gennaio 2008 fu negoziato il primo contratto futures sull’oro nello Shanghai Futures Exchange, arrivando al 2013, quando la Cina diviene il più grande consumatore mondiale di oro e il primo ETF sul metallo giallo viene lanciato nel Paese.

L’oreficeria rappresenta il settore più importante della domanda del metallo prezioso in Cina.

La sua crescita è stata supportata da redditi crescenti e dal rapido processo di urbanizzazione.

Nel 2013 ha superato l’India diventando il più grande consumatore e produttore orafo nel mondo.

I consumatori cinesi acquistano oro a 24 carati per proteggersi da una possibile svalutazione della moneta. Albert L. H. Cheng afferma, nel suo rapporto sull’oro e la Cina ,che:

<< In maniera più generale, i cinesi considerano tradizionalmente l’oro come una forma di moneta. In effetti, in mandarino il carattere jin per l’oro è sinonimo anche di moneta. […] La domanda in Cina per prodotti a 24 carati è in gran parte frutto di considerazioni finanziarie e per la consapevolezza che, in situazione estreme, i gioielli in oro possono facilmente essere scambiati con la liquidità. >>

La paura di inflazione è uno dei maggiori fattori che stanno alla base della crescita nella domanda nazionale di investimenti.

 In un periodo passato contraddistinto da iperinflazione, infatti, oro, argento e valute estere sono stati l’unico modo per preservare la ricchezza finanziaria.

L’oro Italiano

Sulla scia dei diverbi nati sull’auditing dell’oro italiano dopo il rimpatrio delle riserve tedesche avviato nel 2013, nell’aprile 2014 la Banca d’Italia ha rilasciato un documento ufficiale in cui si precisava il tonnellaggio e le sedi di stoccaggio delle riserve auree italiane.

Nel 2014 si contavano esattamente 2.451,80 tonnellate d’oro nelle casse della Banca d’Italia, quantità che pone il nostro paese nelle primissime posizioni fra i detentori d’oro a livello mondiale.

Un annuncio,questo, estremamente importante, poiché come annunciava Alberto Angela nel 2010, autore dell’unica testimonianza video dei forzieri di Palazzo Koch a Roma:

<< …dalle riserve auree dipende la capacità dell’Italia di fornire garanzie ai propri partner commerciali e di richiedere prestiti impegnandole nei momenti di difficoltà.

L’oro d’Italia rappresenta simbolicamente la ricchezza del Paese: sono i nostri gioielli di famiglia. >>

Il quantitativo totale di oro di proprietà dell’Istituto, a seguito del conferimento alla BCE di 141 tonnellate, è pari a 2.452 tonnellate (metriche), costituito prevalentemente da lingotti (95.493) e per una parte minore da monete.

A comporre le nostre riserve, un insieme di lingotti d’oro puro – detti verghe – di varie forme e pesi (95.493 pezzi, dai 4,2 ai 19,7 chilogrammi e contenuto di oro > 99%) e di monete d’oro (871.000 pezzi) provenienti da varie parti del mondo e risalenti ad epoche diverse.

Nel video girato da Angela, ad esempio, si intravvedono lingotti provenienti da Inghilterra, Russia, Stati Uniti e ne viene preso in esame uno addirittura risalente alla Seconda Guerra Mondiale: su di esso, una svastica nazista.

Come avvenuto per la maggioranza delle banche centrali europee, il più delle riserve auree italiane, è stato accumulato tra la fine degli anni ’50 ed i ’60 sotto il sistema di Bretton Woods: l’incremento di produttività, l’inflazione del biglietto verde e la completa convertibilità del dollaro in oro in ambito internazionale, invogliò e permise alle emergenti economie europee, guidate dalla Francia di De Gaulle, di scambiare ingenti quantità d’oro con la FED.

Per frenare l’emorragia di oro dalle casse statunitensi, nel 1971 Nixon decretò la fine di Bretton Woods inaugurando l’epoca delle valute fiat a corso forzoso i cui cambi sarebbero stati determinati, come avviene ancora oggi, dai soli partecipanti al Forex.

La Sagrestia Oro e i caveaux esteri

Secondo quanto riportato da Angela, poi confermato nella documentazione del 2014, l’oro italiano non è collocato interamente a Roma, nelle casseforti della sede della Banca d’Italia (Palazzo Koch).

I rimanenti lingotti che compongono le nostre riserve auree sono dislocati in altri tre luoghi, posti al di fuori del territorio nazionale italiano: BernaLondra e New York.

Localizzazione geografica

Depositario Tonnellate %
Regno Unito 141,2 5,76
Svizzera 149,3 6,09
Stati Uniti 1.061,5 43,29
Italia 1.100,0 44,86
Totale 2.452,0 100,00

Nella sua dettagliata relazione, la Banca d’Italia ha rivelato che solo il 45% delle riserve auree (1.100 tonnellate) sono stipate nella Sagrestia Oro di Palazzo Koch, poiché l’altro 43% (1.062 tonnellate) è immagazzinato presso i depositi di Federal ReserveBank of England e Banca per i Regolamenti Internazionali.

Il prestito tedesco, gli oneri dell’Eurozona

Nell’alimentare le voci che c’erano ben 1.200 tonnellate d’oro italiano in quel di New York, c’è stato un precedente storico: negli anni ’70 il Governo richiese alla Germania un prestito che, su richiesta tedesca, venne garantito da un’equivalente somma di oro: la Banca d’Italia ordinò che ben 543 tonnellate d’oro italico custodite presso la FED,venissero impegnate a garanzia di restituzione del prestito.

Il debito venne ripagato in toto e le riserve disimpegnate; da allora, purtroppo, dell’oro custodito oltreoceano non è più stata data notizia certa.

Di certo c’è,però, che una parte delle 1.100 tonnellate custodite a Roma non sono nelle disponibilità della Banca d’Italia: ai sensi dell’art. 30 dello Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali di cui la Banca d’Italia fa parte, 141 tonnellate di oro custodite nella Sagrestia di Palazzo Koch sono virtualmente bloccate.

Questo perché la Banca Centrale Europea ha sì delle proprie riserve monetarie, ma queste sono state composte a partire dalle risorse messe a disposizione dai vari paesi aderenti all’ Unione Monetaria: il 15% di questi contributi dovuti da ogni paese utilizzatore dell’euro, secondo il già citato statuto, dovevano essere corrisposti in oro: per l’Italia quel 15% corrispondeva esattamente a 141 tonnellate.

Inoltre,nonostante la Banca d’Italia abbia ormai da anni una sede stabile in quel di Manhattan, l’istituto non ha mai ritenuto opportuno verificare con mano l’effettiva presenza e la situazione giuridica dell’oro custodito su suolo statunitense: la banca centrale italiana,difatti, si affida a degli auditing condotti da revisori esterni che, pare, non hanno accesso alle riserve detenute oltre confine.

Sono infatti le banche centrali estere presso cui l’oro italiano è detenuto, ad inviare dei report di notifica a Roma con cadenza annuale.

Qual è la situazione giuridica dell’oro italiano?

Viene dato in leasing?

Viene utilizzato come collaterale per prestiti istituzionali?

In che percentuale?

Ebbene, non c’è molto da riportare a questo proposito, perché la risposta pervenuta a Ronan Manly,operatore professionale in oro di Singapore, direttamente dagli uffici di Palazzo Koch non lascia spazio ad incomprensioni:

<< La presente è per informarla che, sfortunatamente, Banca d’Italia non fornirà informazioni aggiuntive [riguardo la situazione giuridica delle riserve estere] oltre a quelle già rilasciate sul suo sito istituzionale. >>

(Press and External Relations Division, Bank of Italy)

Se la ricerca di informazioni riguardo possibili prestiti o leasing dell’oro italiano è ostacolata dalla banca stessa, non ci rimane altro che andare dritti al cuore del problema:la privatizzazione dell’Istituto.

Al contrario di quanto avviene per la maggioranza delle Banche centrali, infatti, la Banca d’Italia è un ente privato di diritto pubblico.

Nel 2014 il Governo approvò il criticatissimo decreto IMU-Bankitalia, norma con cui la privatizzazione e la ricapitalizzazione  della banca centrale italiana divenne realtà.

A testimoniarlo, il video dei tre senatori del M5S che ebbero l’opportunità di visitare le riserve auree di Roma nello stesso anno e che, a conclusione del video, toccano proprio quest’argomento.

Non voglio continuare a tenerti sulle spine, perciò la faccio breve: dire che l’oro di Palazzo Koch è oro italiano (per inciso, del popolo italiano)è un puro eufemismo.

Quelle 2.450 tonnellate, o quanto in realtà esse siano, non sono di proprietà dello Stato (e di riflesso, di noi cittadini) né degli azionisti privati della Banca d’Italia che sulle riserve non possono vantare alcun diritto (e meno male!).

In questi giorni e’ stata presentata alla Camera dei deputati una documentazione per l’esame del progetto di legge relativo alle  Riserve auree A.C. – 1064 Dossier n° 71 – Schede di lettura 13 dicembre 2018.

“A.C. 1064

Titolo:   Interpretazione autentica dell’articolo 4 del testo unico delle norme di legge in materia valutaria, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148, in materia di gestione dell e riserve ufficiali

Iniziativa: Parlamentare

Primo firmatario: Claudio BORGHI”

La proposta di legge intende fornire un’interpretazione autentica della normativa vigente in materia valutaria, volta a chiarire che la Banca d’Italia gestisce e detiene,ad esclusivo titolo di deposito, le riserve auree, fermo restando il diritto di proprietà dello Stato italiano sulle riserve, comprese quelle detenute all’estero.

La proprietà,giuridicamente, è in capo alla stessa Banca d’Italia, che, repetita iuvant, è un organismo privato, sia pure investito di funzioni pubbliche, partecipante della Banca Centrale Europea, ed i suoi azionisti sono le maggiori banche“italiane”, tranne uno striminzito 5 per cento in mano all’ INPS  .

Le virgolette poste sull’aggettivo italiane riguarda il fatto che tutte, diciamo tutte, le banche interessate  hanno importanti azionisti esteri, in alcuni casi sono controllate da istituti stranieri, a partire dai due giganti Unicredit e Intesa San Paolo. 

Anche la Banca detta d’Italia, che alcuni ancora chiamano banca “nazionale” è quindi eterodiretta, ed i suoi domines sono il gotha della finanza mondiale.

Al contrario di quanto riportato negli statuti delle altre banche centrali europee, le quali detengono e gestiscono le riserve auree per conto dei loro governiil sito della banca centrale italiana recita (senza dare troppe spiegazioni):

<< La proprietà delle riserve auree ufficiali è assegnata per legge alla Banca d’Italia >>

Chi può disporre quindi di questo oro?

Non si sa.

Esso è intoccabile ed inutilizzabilea detta di quanto riportato dall’onorevole Vacciano uno dei senatori ammessi a visitare la Sagrestia Oro, e pertanto le ipotesi di vendita o di utilizzo a garanzia di prestiti pubblici sono semplici speculazioni inattuabili.

Se ne possa disporre il Governatore di sua iniziativa è solo una congettura, in quanto questo potere non è specificato ma solo lasciato sottintendere.

Se ne possa disporre lo Stato è, ahi noi, un’altra congettura: quando Tremonti nel 2009 propose di tassare una tantum le grandi plusvalenze che la Banca d’Italia aveva realizzato sulle riserve auree (tacita ammissione delle operazioni di compravendita di cui sono oggetto i lingotti?) gli venne detto di ripensarci perché l’oro appartiene agli italiani (allo Stato)e quindi lo Stato non può tassare sé stesso (semplice parata di chiappe?).

Non solo, quindi,attorno l’oro della Banca d’Italia gravitano ragionevoli dubbi riguardanti la quantità di riserve custodite all’estero e la sua situazione giuridica, ma non si sa se lo si definisce italiano perché di proprietà italiana o solo perché proveniente dall’Italia: al momento di dover sciogliere i nodi giunti al pettine, infatti, le parti hanno platealmente giocato a scarica-barile sulla questione.

Quel che colpisce profondamente è il disinteresse della classe politica, ma la spiegazione non è tanto difficile: chi tocca i fili muore.

Ne sa qualcosa il governo italiano di centro-destra, pessimo ma legittimo, oggetto di un “colpo di Stato” per motivi finanziari del 2011.

Tremonti chiedeva gli Eurobond, sgraditi a Francoforte, Berlusconi ipotizzava forse di uscire dall’euro, si accordava con Putin  e con Gheddafi, prima statista rispettato, poi nemico pubblico franco- britannico.

Pressioni tedesche sull’Italia affinché venda il suo oro

Un ultimo esempio di come l’oro chi ce l’ha se lo tenga stretto: davanti all’ipotesi avanzata di inserire nell’attivo dell’EFSF  (il Fondo salva Stati ) anche l’oro, la Bundesbank ha subito risposto picche, ed anche la Banca d’Italia, per la verità, ha avanzato mille riserve.

La Bundesbank il suo oro se lo tiene stretto, ma a quanto pare vorrebbe che l’Italia invece se lo vendesse.

Secondo il quotidiano britannico “The Indipendent” infatti era in atto una forte pressione tedesca affinché la Banca d’Italia mettesse sul mercato una parte delle sue riserve auree.

Qualche mese prima, a novembre 2011, il presidente della Commissione per l’Europa del Parlamento tedesco, Gunther Krichbaum, aveva affermato che “per ridurre il debito pubblico l’Italia deve mettere in vendita una parte delle riserve auree”.

E Michael Fuchs, vice capogruppo della CDU (il partito della Merkel) al Bundestag aveva detto ancor più brutalmente:

“Gli italiani debbono mettere a posto i conti, quindi o portano a termine le privatizzazioni, oppure vendono le loro riserve d’oro”. Insomma: o cedete le ultime industrie pubbliche che vi sono rimaste (Eni, Enel, Finmeccanica) o cedete l’oro.

Vendere l’oro per ridurre il debito pubblico monstre…..

Nei primi mesi del 2018 il debito pubblico italiano corre ad un ritmo vertiginoso: in media 4.469 euro in più ogni secondo, contro una media annuale che nel 2017 era attorno a 1.160.

Oggi si attesta intorno ai 2.300 miliardi di euro.

Il debito rappresenta una palla al piede per la nostra economia, considerando che gli interessi che lo Stato paga drenano ogni anno decine di miliardi.

Malgrado i richiami continui da parte di Bankitalia, dell’Ufficio parlamentare di bilancio, di Confindustria e della Ue, le ricette messe in campo dai partitisi sono rivelate improbabili, quasi come il resto delle promesse elettorali.

 La situazione italiana suscita preoccupazione, insomma, soprattutto da parte dei grandi investitori internazionali: l’instabilità politica post voto potrebbe esporci al rischio-attacco della speculazione in Borsa

La domanda è: vendere l’oro di Bankitalia per ridurre il debito pubblico potrebbe essere una soluzione percorribile?

La nostra banca nazionale conserva 2.452 tonnellate di oro in lingotti e monete.

Si tratta della cosiddetta riserva aurea.

Le riserve auree hanno la funzione di rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario italiano e della moneta unica, soprattutto durante i periodi di crisi.

La riserva di oro assicura che, in ogni caso, la nostra Banca centrale nazionale ha “in pancia” i soldi necessari per svolgere le proprie funzioni,anche in periodi di forte turbolenza sui mercati.

Bankitalia è il quarto detentore di riserve auree al mondo, dopo la Federal Reserve (Usa),la Bundesbank (Germania) e il Fondo monetario internazionale.

Perché vendere l’oro “non è una soluzione percorribile ed efficace” ?

Tornando alla domanda iniziale, vendere parte delle nostre riserve auree aiuterebbe a ridurre il debito?

“No, non è una strada praticabile e nemmeno efficace.

Innanzitutto per ragioni pratiche – ha detto Salvatore Rossi, Direttore generale di Bankitalia,nel corso di “24 Mattino” su Radio2 4 -.

 Parliamo di 90 miliardi di euro quando il nostro debito pubblico è intorno a 2.300 miliardi.

E’, al momento, giuridicamente impossibile.

C’è un accordo internazionale tra le banche centrali, che prevede che le vendite siano razionate, dunque ne potremmo vendere per poche centinaia di milioni alla volta.

Nei fatti non si risolverebbe il problema del debito pubblico e daremmo un pessimo segnale al mondo.

La vendita di oro da parte di un Paese darebbe il segnale di un gesto disperato”.

Rossi ha assicurato che al momento non ci sono segnali di dissaffezione sui titoli del debito pubblico italiano da parte degli investitori:

“Ovviamente la situazione è sempre precaria, nel senso che il rischio di un cambiamento di opinione è sempre possibile”.

Chi possiede il debito pubblico italiano?

Oltre un terzo del debito pubblico italiano è in mano agli investitori stranieri, anche se la quota degli investitori esteri è un po’ calata, negli ultimi due anni, passando dal 34% al 32%.

E’quanto emerge da un’analisi del Centro studi di Unimpresa sul debito pubblico italiano secondo cui i titoli sottoscritti da fondi e assicurazioni sono calatidi 28 miliardi (-19%) a 120 miliardi.

Tra il 2015 e il 2017 è invece raddoppiata la fetta di titoli pubblici detenuta dalla Banca d’Italia che ha incrementato di quasi 200 miliardi di euro (+108%) gli acquisti di Bot e Btp nell’ambito del piano promosso dalla Banca centrale europea.

Scende da 149 miliardi a 120 miliardi (-20%), complice anche il forte calo dei rendimenti, lo stock di obbligazioni pubbliche emesse dal Tesoro detenuto da famiglie e imprese.

Si è alleggerito di quasi 32 miliardi, invece, il portafoglio di bond dello Stato italiano posseduto dalle banche.

“Enorme potere delle grandi banche”: nuovo governo sotto pressione

“Questi numeri sono fondamentali per capire il grado di attenzione degli osservatori mondiali in vista della formazione del nuovo governo,” ha osservato il vicepresidente di Unimpresa, Claudio Pucci.

“Chiunque riuscirà a formare una maggioranza e a dar vita a un nuovo esecutivo dovrà farei conti con i big mondiali della finanza, esattamente come è accaduto negli ultimi decenni.

Nonostante gli sforzi della Bce, siamo sempre sotto pressione e il potere delle grandi banche d’affari internazionali, che hanno la maggioranza relativa di ‘Italia spa’, è enorme”.

Secondo lo studio dell’associazione, basato su dati della Banca d’Italia aggiornati ad ottobre scorso, negli ultimi due anni il debito pubblico è salito di 116,3 miliardi (+5,35%) dai 2.173,3 miliardi del 2015 ai 2.289,6 miliardi del 2017.

Un periodo nel quale accanto a una crescita costante del “buco” nei conti dello Stato si è registrata qualche modifica nella composizione dei sottoscrittori di Bot, Btp e Cct.

Nel 2015, la Banca d’Italia deteneva 169,4 miliardi di titoli pubblici del nostro Paese, cifra corrispondente al 7,80% del totale del debito; la fetta di debito sottoscritta dall’istituto di Via Nazionale, nell’ambito del piano di acquisti avviato dalla Banca centrale europea, è salita a 353,7 miliardi a fine 2017 e la fetta raddoppiata al 15,45%; l’incremento è di 184,3 miliardi (+108,81%).

 Lo stock di debito sottoscritto dalle banche (categoria nella quale viene conteggiato pure il portafoglio dei fondi monetari) è sceso di 31,9 miliardi (-4,87%) da 655,9 miliardi a 624,04 miliardi e la quota dal 30,18% al 27,25%.

Per quanto riguarda i fondi d’investimento e le assicurazioni, l’ammontare di Bot e Btp è leggermente diminuito di 2,6 miliardi (-0,58%) da 457,7 miliardi a 455,1 miliardi, con la percentuale complessiva calata lievemente dal 21,06% al 19,88%.

Sensibile calo, invece, delle obbligazioni statali acquistate da famiglie e imprese: la diminuzione registrata negli ultimi due anni è pari a 28,8 miliardi (-19,34%)da 149,04 miliardi a 120,2 miliardi.

Sostanzialmente stabile e rilevante, nella mappa dei sottoscrittori di debito, il peso degli investitori stranieri: il totale di Bot e Btp in mano alle grandi banche mondiali e alle istituzioni finanziarie internazionali è passato da 741,08 miliardi a 736,5 miliardi con una regressione di 4,5 miliardi (-0,62%) che porta dal 34,10% al 32,17% la quota complessiva.

Un riposizionamento strategico 

Sulla base dei piani su cui nessun governo ha fatto grande pubblicità ma la cui esistenza è stata confermata nei rispettivi parlamenti, Germania, Olanda, Belgio e Austria – il blocco delle nazioni-guida dell’Europa Centrale e della stessa eurozona – si avvia a riportare sotto la propria gestione diretta più del 50% delle riserve auree totali nazionali tra il 2018 e il 2020: anche prendendo in considerazione solo i quattro «big» dell’euro sistema ( reimpatri non dettagliati di lingotti sono in corso anche da parte della Francia, della Romania e della Polonia tra i Paesi Ue, a cui si può aggiungere la Svizzera che avrebbe in programma di riportare nei Cantoni fino a 500 tonnellate d’oro custodite tra Londra e New York).

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In questo puzzle da centinaia di miliardi di euro, va poi inserito un altro tassello non meno rilevante per avere una visione d’insieme del fenomeno: dietro il rimpatrio dell’oro, comincia a delinearsi infatti un più vasto riposizionamento strategico dell’intero stock delle riserve sovrane europee, e non solo di quelle.

La crisi economica iniziata nel 2007 ha generato incertezza in tutto il mondo e la discussione sull’oro si è riaccesa come prevedibile anche in Europa dove di populisti, soprattutto alla dirigenza delle banche centrali, non ce ne sono.

Allora cosa succede?

Nel 2014 l’Olanda ha riportato in patria 122,5 tonnellate del suo oro che era depositato presso la FED negli Stati Uniti.

La percentuale di metallo prezioso che l’Olanda intende detenere personalmente dovrà essere del 31% invece del precedente 11%.

 L’oro è stato prelevato unicamente negli Stati Uniti e non da Canada e Inghilterra e alcuni analisti hanno visto in tale operazione una palese sfiducia nei confronti della banca centrale statunitense.

La Germania che possiede la seconda riserva aurea mondiale (3396 tonnellate) ha invece deciso di arrivare entro il 2020 a rimpatriare circa il 50% delle sue riserve.

In Germania dopo un’iniziativa popolare sposata anche da alcuni politici, la Corte dei Conti tedesca ha chiesto alla Bundesbank di avere dati certi sulle riserve depositate all’estero.

A conti fatti però la Germania rimpatrierà in maniera significativa solo l’oro depositato in Francia per un totale di circa 374 tonnellate.  

La FED non restituirà alla Germania il suo oro: questo è il finale della vicenda tedesca, Berlino non potrà quindi ripristinare in casale sue riserve auree come previsto.

Sembra che la vicenda abbia ormai creato un precedente,il dibattito si è intensificato a livello politico e popolare dove ormai c’è la convinzione che l’oro sia stato dato in leasing o peggio ancora venduto.

L’Austria più timidamente ha chiesto invece un auditing sul proprio oro, mentre in Italia vige un incomprensibile silenzio sulle nostre cospicue riserve auree.

Una riflessione e un esempio che potrebbero partire proprio dal ruolo-guida della Bce, visto che la stessa Eurotower volle inserire a fine anni 90 una quota significativa di lingotti d’oro sovrani (il 30% della quota di riserve nazionali conferite dai Paesi membri) a garanzia della solidità di Eurotower.

Pochi ricordano infatti che a garanzia del bilancio della Bce (ma non dell’euro) i soci dell’euroclub hanno versato nel complesso 767 tonnellate d’oro sovrano, una montagna di lingotti su cui l’Europa sembra avere però una gestione e una visione quasi bipolare: se da un lato è riconosciuto dalla stessa Banca centrale come un asset-chiave per la sicurezza del suo bilancio, dal lato della sua gestione e custodia non sembra attribuirgli di fatto tale ruolo.

La grande trasparenza con cui diffonde dati, informazioni e dettagli su ogni atto della vigilanza (compresi quelli di carattere legale) e soprattutto la precisione con cui elenca ogni mese tutte le varie operazioni monetarie straordinarie con cui ha salvato finora le sorti dell’Eurozona, la Bce non parla mai volentieri del modo in cui conserva e gestisce l’oro dei cittadini europei.

L’unica cosa certa è che a Francoforte non solo non è depositato neanche un lingotto delle 504 tonnellate d’oro che la Bce ha dichiarato di possedere a fine 2015, e che meno della metà di questo tesoro -bene rifugio, indicatore di fiducia e riserva di valore per eccellenza – è ai confini dell’Eurosistema, cioè a Roma (Banca d’Italia) e Lisbona (Banca del Portogallo).

Al contrario, più del 50% dei lingotti Bce, secondo le stime degli analisti di BullionStar, è “curiosamente” affidato alla custodia (e in parte si dice alla gestione) di due banche centrali che con l’Eurozona e con l’euro non hanno nulla a che fare, la Fed di New York da un lato e la Bank of England a Londra dall’altro.

Anche tralasciando il fatto (peraltro non positivo) chela Bce non conduce neppure un audit, o anche la più semplice verifica contabile fisica sull’oro custodito in America e Regno Unito, resta sul tavolo l’ennesimo paradosso: come si spiega tanto allarme sulle ripercussioni e sui rischi del distacco britannico dall’Europa, se è poi la stessa Bce a fare da “garante”alla solidità e la sicurezza prospettica della piazza finanziaria londinese,lasciandogli in custodia o gestione quasi un terzo delle proprie riserve auree?

C’è forse in disegno preciso che spinge tante nazioni a rimpatriare centinaia di tonnellate d’oro?

Il futuro del metallo giallo è in incubazione un ruolo-guida nella rivoluzione finanziaria del denaro virtuale e delle Blockchain?

Insomma, siamo alla vigilia di un nuovo Gold Standard2.0 ?

Stiamo forse assistendo alla realizzazione del cupo  sentore che in Europa l’Euro ha i giorni contati?

 Da più parti si parla di una tragedia annunciata già alla nascita della moneta unica, ma eventuali attacchi speculativi sono comunque possibili e potenzialmente devastanti.

Se far tornare l’oro dentro i propri depositi è quindi un gesto per dare fiducia ai mercati domestici, specularmente vi si esprime invece una più concreta e reale incertezza verso il sistema economico in generale.

Detenere l’oro è sicuramente un fattore di condizionamento verso molte scelte politiche, questo ancor di più in un momento di crisi.

Basti pensare che l’oro tedesco fu inviato fuori dal paese per proteggerlo da una possibile invasione sovietica.

Oggi che il pericolo non c’è più non dovrebbe essere un tabù riportare l’oro tedesco ed europeo nel vecchio continente.

In verità questo evento accentuerebbe la ricerca di quella nuova Bretton Woods che vedrebbe oggi nuovi e più incisivi attori sulla scena mondiale.

Certamente questo processo decreterebbe un multipolarismo economico realizzato, modificando le strutture delle stesse organizzazioniinternazionali. 

Per quanto se ne dica sembra quindi che l’oro abbia come asset un valore di portata geoeconomica e spostarlo possa contribuire a consolidare un cambiamento poco gradito, ma inevitabile e che forse verrà ulteriormente incentivato da future crisi invece che da processi di natura decisionale e quindi politica.

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