Sintomi neuropsichiatrici persistenti: una sfida pervasiva nella sindrome post-COVID-19

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La pandemia di COVID-19, causata dal nuovo coronavirus SARS-CoV-2, ha avuto un profondo impatto sulla salute globale, con manifestazioni che si estendono oltre la fase acuta dell’infezione. Sebbene inizialmente riconosciuto per le sue implicazioni respiratorie, il COVID-19 ha rivelato la sua capacità di colpire vari sistemi di organi, dando origine a uno spettro di disturbi che vanno dalle complicazioni polmonari a quelle neurologiche (Bowe et al., 2022; Davis et al., 2023). Tra le molteplici conseguenze, i sintomi neuropsichiatrici sono emersi come preoccupazioni significative, persistendo molto tempo dopo la risoluzione dell’infezione acuta (Rogers et al., 2020, 2021; Taquet et al., 2021a; Han et al., 2021).

Questi sintomi neuropsichiatrici comprendono una vasta gamma di manifestazioni, tra cui ansia, depressione, disturbi del sonno, deficit cognitivi e affaticamento mentale (Rogers et al., 2020, 2021; Taquet et al., 2021a). Mentre molti individui sperimentano la risoluzione di questi sintomi entro settimane o mesi, una percentuale notevole continua a sopportarli come parte della sindrome post-COVID (PCS) (Quan et al., 2023). Definita come sintomi che persistono oltre le 12 settimane dopo l’infezione da SARS-CoV-2, la PCS colpisce fino al 10% dei sopravvissuti al COVID-19, prevalentemente tra gli adulti (Quan et al., 2023).

Contrariamente alle aspettative, la gravità della malattia iniziale di COVID-19 non prevede in modo affidabile la probabilità di sviluppare PCS, essendo a rischio anche gli individui asintomatici (Quan et al., 2023). La presentazione clinica della PCS rispecchia l’eterogeneità osservata durante l’infezione acuta, comprendendo sintomi somatici, neurologici e psichiatrici (Taquet et al., 2021b; Sudre et al., 2021; Subramanian et al., 2022; Davis et al., 2023) . In particolare, i sintomi psichiatrici spesso segnano l’insorgenza di nuovi disturbi psichiatrici, ponendo sfide significative per le persone colpite, in particolare per i pazienti più giovani (Badenoch et al., 2021; Tang et al., 2022; Kubota et al., 2022; Koczulla et al., 2022).

La persistenza dei sintomi neuropsichiatrici nella PCS ha un profondo impatto sul benessere e sulla qualità della vita dei pazienti (Badenoch et al., 2021; Tang et al., 2022; Kubota et al., 2022; Koczulla et al., 2022). L’affaticamento, una caratteristica distintiva della PCS, si presenta come un esaurimento debilitante sproporzionato rispetto ai livelli di sforzo, ostacolando sia le funzioni fisiche che cognitive (Taquet et al., 2021b; Sudre et al., 2021; Subramanian et al., 2022; Davis et al., 2023). In particolare, l’affaticamento post-COVID interrompe le attività quotidiane, portando a un declino del funzionamento generale e della qualità della vita, nonostante un riposo adeguato (Taquet et al., 2021b; Sudre et al., 2021; Subramanian et al., 2022; Davis et al. ., 2023).

Tuttavia, la specificità diagnostica e la durata dell’affaticamento post-COVID rimangono oggetto di dibattito (Corfield et al., 2016; Joli et al., 2022). Sebbene molti individui affetti da PCS sperimentino profonda sofferenza e menomazione, spesso non riescono a soddisfare i criteri diagnostici per la sindrome da stanchezza cronica (CFS) o l’encefalomielite mialgica/sindrome da stanchezza cronica (ME/CFS) delineati dai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC). (CDC, 2021).

La complessa patofisiologia dell’affaticamento e del deterioramento cognitivo nella sindrome post-COVID

Sulla scia della pandemia di COVID-19, l’attenzione si è sempre più rivolta agli effetti persistenti del virus, in particolare nei soggetti affetti da sindrome post-COVID (PCS) . Sebbene l’attenzione iniziale fosse incentrata sui sintomi respiratori, le prove emergenti evidenziano la prevalenza di manifestazioni neuropsichiatriche, tra cui affaticamento e deterioramento cognitivo, che persistono molto tempo dopo la fase acuta della malattia (Quan et al., 2023; Chen et al., 2022; Joli et al., 2022; Calabria et al., 2022; Ceban et al., 2022a; Crivelli et al., 2022).

Gli studi indicano una notevole sovrapposizione tra affaticamento e deficit cognitivi nella PCS, che ricorda i risultati di altre condizioni come l’encefalomielite mialgica/sindrome da stanchezza cronica (ME/CFS) (Azcue et al., 2022; Wong e Weitzer, 2021). Questa convergenza suggerisce una potenziale fisiopatologia comune alla base di questi sintomi.

Sebbene i meccanismi precisi che guidano l’affaticamento rimangano sfuggenti, le prove accumulate implicano stress ossidativo, disfunzione mitocondriale e infiammazione cronica (Booth et al., 2012; Filler et al., 2014; Morris et al., 2019; Han et al., 2021). . Le analisi proteomiche delle cellule mononucleate del sangue periferico di pazienti ME/CFS e di individui post-COVID con ME/CFS hanno sottolineato il ruolo dell’infiammazione cronica in queste condizioni (Sweetman et al., 2020; Paul et al., 2021).

Inoltre, il cervello appare particolarmente vulnerabile agli effetti dell’infiammazione cronica, contribuendo potenzialmente al deterioramento cognitivo osservato nella PCS (Baumeister et al., 2022; Kappelmann et al., 2021). Questo ambiente infiammatorio può anche contribuire alla sovrapposizione dei sintomi depressivi osservati in concomitanza con l’affaticamento (Dabrowska et al., 2021; Al-Hakeim et al., 2021; Butler et al., 2022; Almulla et al., 2022; Lyra E Silva ). et al., 2022).

L’interazione tra infiammazione, affaticamento e deterioramento cognitivo nella PCS rispecchia associazioni simili osservate in altre condizioni come la sclerosi multipla, evidenziando ulteriormente la complessità della fisiopatologia sottostante (Brys et al., 2020; Heitmann et al., 2022).

Tuttavia, la natura multifattoriale della PCS pone sfide per il trattamento. I farmaci esistenti, spesso riproposti da altre condizioni, potrebbero non affrontare adeguatamente i diversi meccanismi che contribuiscono all’affaticamento, al deterioramento cognitivo e alla depressione nella PCS (Ceban et al., 2022b; Chee et al., 2023). Gli studi clinici che valutano potenziali trattamenti per la PCS mirano tipicamente a singoli aspetti della fisiopatologia, trascurando potenzialmente l’intricata interazione dei fattori che contribuiscono alla sindrome.

Recenti indagini sugli integratori alimentari, come l’ossalacetato, hanno offerto spunti su potenziali strade di intervento (Cash e Kaufman, 2022). Nonostante le domande riguardanti la metodologia, gli studi suggeriscono che l’integrazione di ossalacetato può mitigare l’infiammazione, migliorare la funzione mitocondriale e rafforzare le difese antiossidanti (Wilkins et al., 2014; Li et al., 2022; Cash and Kaufman, 2022).

In sostanza, la persistenza della fatica e del deterioramento cognitivo nella PCS sottolinea la necessità di una comprensione completa della sua patofisiologia sottostante. Affrontare la natura multiforme della sindrome richiede approcci innovativi che considerino l’intricata interazione tra stress ossidativo, disfunzione mitocondriale e infiammazione. Solo attraverso strategie così sfumate è possibile sviluppare trattamenti efficaci per alleviare il peso della PCS sugli individui colpiti.

Esplorazione del potenziale terapeutico dei farmaci erboristici multitarget: un focus sul trattamento post-COVID

Nel campo della farmacoterapia, l’approccio convenzionale spesso comporta lo sviluppo di farmaci sintetici su misura per affrontare sintomi specifici o mirare a percorsi particolari. Tuttavia, si osserva un cambiamento di paradigma emergente nell’utilizzo dei farmaci erboristici, in particolare nel contesto dei farmaci multitarget. A differenza delle loro controparti sintetiche, le erbe mediche spesso contengono una miriade di composti con diversi profili farmacologici, che consentono loro di raggiungere potenzialmente più bersagli e offrire benefici sfaccettati in malattie complesse.

Questa nozione è sottolineata da numerosi studi che evidenziano la versatilità delle medicine erboristiche nel colpire vari aspetti delle malattie. Ad esempio, Luo et al. (2019) e Zaa et al. (2023) hanno chiarito come le erbe mediche, grazie alla loro complessa composizione, possano modulare diversi obiettivi fisiologici, esercitando così effetti benefici in uno spettro di condizioni. Tuttavia, un ostacolo critico all’adozione diffusa dei medicinali erboristici risiede nella mancanza di formulazioni standardizzate, che portano a variazioni nella composizione e nella concentrazione dei principi attivi.

L’ambiguità che circonda l’efficacia dei medicinali a base di erbe è esemplificata nel caso del ginseng, in cui preparazioni e dosaggi disparati hanno precluso conclusioni definitive sulla sua efficacia nel migliorare le capacità cognitive o alleviare l’affaticamento (Geng et al., 2010; Zhou et al., 2022). Questa variabilità sottolinea la necessità di estratti standardizzati e di rigorose valutazioni cliniche per discernere il vero potenziale terapeutico dei rimedi erboristici.

Concentrandosi sul trattamento post-COVID, gli sforzi sono stati diretti all’identificazione di farmaci erboristici con formulazioni standardizzate e prove solide a sostegno della loro efficacia terapeutica. Tra questi spiccano l’estratto standardizzato di foglie di Ginkgo biloba (EGb761®) e due estratti standardizzati di radici e rizoma di Rhodiola rosea (SHR5, WS® 1375), che si sono dimostrati promettenti nell’affrontare l’affaticamento e il deterioramento cognitivo associati al post-COVID. e sintomi di depressione.

Singh et al. (2019) e Müller et al. (2019) hanno fornito prove convincenti a sostegno dell’efficacia di EGb761® nel migliorare i deficit cognitivi post-COVID. Allo stesso modo, studi di Panossian et al. (2021), Ivanova Stoijcheva e Quintela (2022) e Anghelescu et al. (2018) hanno sottolineato il potenziale terapeutico degli estratti di Rhodiola rosea, in particolare SHR5 e WS® 1375, nell’attenuare i sintomi post-COVID.

Questi farmaci erboristici, classificati come adattogeni, presentano proprietà multitarget, offrendo così un approccio olistico alla gestione delle complicanze post-COVID. Gli adattogeni sono caratterizzati dalla loro capacità di migliorare la resilienza del corpo ai fattori di stress e ripristinare l’omeostasi, rendendoli particolarmente rilevanti nel contesto delle sindromi post-virali come quelle osservate nei sopravvissuti al COVID-19.

I farmaci multitarget a base di erbe rappresentano una strada terapeutica promettente, soprattutto nella gestione delle complicanze post-COVID. Tuttavia, formulazioni standardizzate e una rigorosa validazione clinica sono indispensabili per sbloccare il loro pieno potenziale terapeutico e facilitare la loro integrazione nella pratica medica tradizionale. Gli sforzi in questa direzione promettono di sfruttare il diversificato arsenale farmacologico di medicinali erboristici per il miglioramento dell’assistenza sanitaria globale.

Il potenziale terapeutico dell’estratto di Ginkgo biloba (EGb761®) nella sindrome post-COVID e oltre

Il Ginkgo biloba , con il suo estratto standardizzato EGb761®, emerge come un importante farmaco erboristico con un ricco profilo farmacologico oggetto di indagini approfondite. La formulazione è composta principalmente dal 6% di terpenoidi (ginkgolidi e bilobalide) e dal 24% di glicosidi flavonoidi, tra cui quercetina, kaempferolo e isoramnetina, che fungono da principali costituenti attivi (Singh et al., 2022). Ampi studi sperimentali e clinici hanno fatto luce sui suoi molteplici effetti terapeutici, che vanno dalle proprietà antiossidanti e antinfiammatorie ai miglioramenti della funzione mitocondriale e della neuroplasticità (Akanchise et al., 2023; Baliutyte et al., 2014; Singh et al., 2019 ; Müller et al., 2019; Müller et al., 2012).

In particolare, EGb761® ha mostrato risultati promettenti nel miglioramento dei deficit cognitivi in ​​vari disturbi della memoria associati all’età, dal deterioramento cognitivo lieve alla demenza neurodegenerativa e vascolare (Müller et al., 2019). La sua efficacia si estende alla mitigazione della neuroinfiammazione e delle manifestazioni comportamentali associate indotte dal lipopolisaccaride (LPS) in modelli animali, suggerendo un potenziale ruolo nell’affrontare l’affaticamento cronico e i sintomi depressivi derivanti dall’attivazione prolungata del sistema immunitario (Zhao et al., 2015; Yeh et al ., 2015; Foster et al., 2021; Roth et al., 2021). Inoltre, EGb761® ha dimostrato la capacità di ridurre i livelli sierici di citochine, inclusa IL-6, implicate nella patogenesi del COVID-19 (Mousavi et al., 2022; Müller et al., 2022; Wang et al., 2022).

Sebbene le prove a sostegno dei benefici cognitivi di EGb761® siano solide, la sua efficacia nell’alleviare l’affaticamento merita ulteriori approfondimenti. Precedenti studi che hanno studiato l’effetto dell’estratto di Ginkgo biloba sull’affaticamento associato alla sclerosi multipla (SM) hanno prodotto risultati promettenti. In uno studio di Johnson et al. (2006), i pazienti con SM trattati con EGb761® hanno mostrato miglioramenti significativi nei punteggi di fatica rispetto al placebo, misurati dalla scala di impatto della fatica modificata (MFIS) e da strumenti di valutazione specifici della malattia (Johnson et al., 2006). Nonostante le dimensioni limitate del campione dello studio, i risultati sono in linea con la farmacologia multitarget di EGb761®.

Basandosi su queste osservazioni, Zifko et al. (2022) hanno condotto una serie di casi coinvolgendo cinque pazienti post-COVID che manifestavano affaticamento persistente e disturbi cognitivi a seguito dell’infezione da SARS-CoV-2. Il trattamento con EGb761® a 160 mg/giorno per un massimo di quattro mesi ha portato a notevoli miglioramenti nell’affaticamento e nella funzione cognitiva, come evidenziato da valutazioni cliniche e strumenti di valutazione standardizzati (Zifko et al., 2022). I risultati favorevoli, uniti alla tollerabilità del farmaco, suggeriscono EGb761® come un’opzione praticabile per la gestione dei sintomi post-COVID per un periodo prolungato.

Le molteplici proprietà farmacologiche di EGb761® si allineano bene con la complessa fisiopatologia alla base dell’affaticamento e della sindrome post-COVID. Le sue azioni antiossidanti, antinfiammatorie e neuroprotettive lo rendono un candidato promettente per affrontare la diversa sintomatologia associata a queste condizioni. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi clinici ben progettati per delineare i suoi precisi meccanismi d’azione e ottimizzare i protocolli terapeutici.

L’estratto di Ginkgo biloba EGb761® emerge come un rimedio erboristico versatile con un potenziale significativo nella gestione della sindrome post-COVID e dei disturbi legati all’affaticamento. La sua farmacologia multitarget e il profilo di sicurezza favorevole lo posizionano come un’opzione terapeutica promettente che merita ulteriori indagini e validazione clinica. Gli sforzi in questa direzione sono promettenti per migliorare la qualità della vita delle persone alle prese con gli effetti persistenti del COVID-19 e di altre condizioni debilitanti.

Il potenziale terapeutico della Rhodiola rosea: una revisione completa

La Rhodiola rosea , un membro della famiglia degli adattogeni, ha raccolto molta attenzione negli ultimi anni grazie alla sua presunta capacità di aumentare la resistenza a vari fattori di stress e di migliorare il benessere fisiologico e psicologico. Gli adattogeni, inclusa la Rhodiola rosea, sono stati utilizzati in numerosi paesi per il loro potenziale nel combattere lo stress, l’esaurimento e vari disturbi come il cancro, le infezioni virali e le malattie batteriche (Panossian et al., 2020; Anghelescu et al., 2018). Nell’ambito della ricerca sulla Rhodiola rosea, sono state condotte indagini approfondite per chiarire le sue proprietà farmacologiche e l’efficacia clinica, in particolare nel migliorare la funzione cognitiva, combattere l’affaticamento e alleviare i sintomi della depressione e del burnout.

L’arsenale farmacologico della Rhodiola rosea comprende una vasta gamma di effetti benefici, che vanno dal miglioramento cognitivo alle proprietà neuroprotettive e antinfiammatorie (Liu et al., 2015; Guan et al., 2012; Agapounda et al., 2022; Kumar et al ., 2019). In particolare, il suo costituente attivo, il salidroside, è stato implicato nel conferire molti di questi benefici terapeutici. Gli studi hanno dimostrato la capacità della Rhodiola rosea di migliorare i deficit cognitivi, aumentare la neuroplasticità e mitigare il danno ischemico, posizionandola così come un candidato promettente per i disturbi neurologici e il declino cognitivo (Ma et al., 2018; Kumar et al., 2019; Zhong et al ., 2019).

Negli ultimi due decenni, la Rhodiola rosea è stata ampiamente studiata sia in contesti sperimentali che clinici, utilizzando principalmente due estratti standardizzati: SHR-5 e WS® 1375 (Melzig et al., 2019). Questi estratti, derivati ​​dalle radici e dai rizomi della Rhodiola rosea, presentano composizioni e profili farmacologici variabili. Degna di nota è la sovrapposizione nelle attività farmacologiche tra Rhodiola rosea e Ginkgo biloba, sottolineandone ulteriormente la potenziale utilità terapeutica (Ivanova Stojcheva & Quintela, 2022; Zhong et al., 2019).

Le indagini cliniche hanno evidenziato l’efficacia della Rhodiola rosea nel migliorare la resilienza, le prestazioni fisiche e mentali e nell’alleviare i sintomi legati allo stress (Hung et al., 2011; Edwards et al., 2012). Gli studi che utilizzano WS® 1375 hanno dimostrato effetti positivi sulla funzione cognitiva, in particolare nelle popolazioni adulte, confermando ulteriormente le sue proprietà di potenziamento cognitivo (Koop et al., 2020).

Inoltre, la Rhodiola rosea si è dimostrata promettente nel trattare i sintomi di affaticamento, depressione e burnout. Studi clinici hanno riportato miglioramenti significativi nei parametri legati all’affaticamento e nei disturbi dell’umore in seguito all’integrazione di Rhodiola rosea (Darbinyan et al., 2000, 2007; Goyvaerts et al., 2012; Kasper & Dienel, 2017). Nonostante i risultati contrastanti di alcuni studi, la tendenza generale suggerisce un impatto favorevole sull’affaticamento sia fisico che mentale (Ishaque et al., 2012; Olsson et al., 2009).

Recenti indagini hanno anche esplorato il potenziale della Rhodiola rosea nel mitigare l’affaticamento e i sintomi neuropsichiatrici associati al post-COVID. Sebbene siano stati avanzati suggerimenti preliminari riguardo alla sua utilità nella gestione della fatica post-COVID, le prove empiriche rimangono scarse (Wegener et al., 2023). Un notevole studio di Karosanisze et al. (2022) hanno valutato l’efficacia di ADAPT-232, un tonico a base di erbe contenente estratto di Rhodiola rosea, in pazienti post-COVID. Tuttavia, i risultati sono stati piuttosto deludenti e hanno sollevato dubbi sull’efficacia della formulazione e sul disegno dello studio (Karosanisze et al., 2022).

Nonostante il promettente potenziale terapeutico della Rhodiola rosea, persistono diverse sfide e limitazioni nella ricerca e nell’applicazione clinica. Problemi quali la variabilità del disegno dello studio, la standardizzazione degli estratti e l’ottimizzazione del dosaggio richiedono ulteriori indagini per sfruttarne tutti i benefici terapeutici in modo efficace.

La Rhodiola rosea è un promettente rimedio naturale con molteplici proprietà terapeutiche, che vanno dal miglioramento cognitivo all’alleviamento della fatica. Sebbene le prove esistenti supportino la sua efficacia in varie condizioni cliniche, sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire i regimi di dosaggio ottimali, la standardizzazione della formulazione e il suo ruolo nelle sfide sanitarie emergenti come la sindrome da stanchezza post-virale. Grazie alla continua ricerca scientifica e a rigorosi studi clinici, la Rhodiola rosea rappresenta una promessa significativa come preziosa aggiunta all’armamentario delle terapie naturali.

Il potenziale terapeutico della Lavandula angustifolia: un’analisi completa

La Lavandula angustifolia , comunemente conosciuta come lavanda, ha raccolto un notevole interesse nel campo della medicina naturale, in particolare per il suo potenziale nell’alleviare i disturbi legati all’ansia. Questa erba aromatica, rinomata per la sua fragranza calmante, è stata sfruttata per scopi terapeutici in varie forme, con una preparazione specifica di olio di lavanda, Silexan®, che emerge come un intervento notevole nel campo della gestione dell’ansia (Kasper et al., 2018). .

L’avvento di Silexan® in capsule di gelatina liquida ha segnato un progresso significativo nelle terapie a base di lavanda, offrendo una forma standardizzata e conveniente per la somministrazione. Indagini precliniche e cliniche hanno sottolineato l’efficacia di Silexan® nel trattamento dei disturbi d’ansia, nonché di ansia e depressione misti (Müller et al., 2021; Bartova et al., 2023).

Le prove cliniche a sostegno delle proprietà ansiolitiche di Silexan® hanno stimolato discussioni sulla sua potenziale utilità nell’affrontare l’ansia e i disturbi dell’umore nei pazienti post-COVID. Ansia mista e depressione sono conseguenze prevalenti negli individui che si stanno riprendendo da COVID-19, spingendo all’esplorazione di nuove modalità terapeutiche (Dold et al., 2023; Kasper et al., 2023). Sono emersi casi clinici che suggeriscono risultati favorevoli con l’integrazione di Silexan® nei pazienti post-COVID, giustificando così ulteriori indagini sulla sua utilità terapeutica in questa popolazione.

I meccanismi terapeutici alla base degli effetti ansiolitici della Lavandula angustifolia rimangono oggetto di interesse e di ricerca continua. L’olio di lavanda, il costituente principale di Silexan®, esercita le sue azioni farmacologiche attraverso vari percorsi, tra cui la modulazione dei sistemi neurotrasmettitori e la riduzione dello stress ossidativo (López et al., 2020). Inoltre, si ritiene che le sue proprietà aromatiche suscitino effetti calmanti sul sistema nervoso centrale, contribuendo così alle sue proprietà ansiolitiche.

Nonostante le prove promettenti a sostegno dell’efficacia di Silexan® nella gestione dell’ansia, diverse considerazioni meritano attenzione. La variabilità nella risposta individuale, i regimi di dosaggio ottimali e le potenziali interazioni farmacologiche richiedono un attento monitoraggio clinico e la personalizzazione dei protocolli di trattamento. Inoltre, il profilo di sicurezza a lungo termine di Silexan® merita un’ulteriore esplorazione, in particolare nelle popolazioni vulnerabili come gli anziani e gli individui con condizioni mediche preesistenti.

L’integrazione degli interventi basati sulla Lavandula angustifolia, come Silexan®, nella pratica psichiatrica tradizionale rappresenta un cambiamento di paradigma verso approcci olistici e naturali alla gestione della salute mentale. Tuttavia, la traduzione dei risultati della ricerca nella pratica clinica richiede prove solide da studi randomizzati controllati e meta-analisi ben progettati per stabilirne l’efficacia, la sicurezza e l’efficacia comparativa rispetto agli agenti farmacoterapeutici convenzionali.

La Lavandula angustifolia, sintetizzata dal preparato standardizzato Silexan®, è promettente come una valida opzione terapeutica per i disturbi legati all’ansia, tra cui ansia mista e depressione. La sua potenziale utilità nell’affrontare le conseguenze psicologiche post-COVID sottolinea la necessità di ulteriori ricerche ed esplorazioni cliniche. Grazie alla continua ricerca scientifica e alla rigorosa validazione clinica, Lavandula angustifolia è pronta a dare un contributo significativo al campo delle terapie per la salute mentale, offrendo un approccio naturale e olistico alla gestione dell’ansia.

Sfruttare il potenziale della fitoterapia per la sindrome post-COVID: un’analisi completa

Compromissione cognitiva, depressione e affaticamento sono emersi come sintomi prevalenti e sovrapposti della sindrome post-COVID (PCS). Comprendere la fisiopatologia alla base di questi sintomi è fondamentale per sviluppare strategie terapeutiche efficaci. Lo stress ossidativo, la disfunzione mitocondriale e la neuroinfiammazione sono stati identificati come fattori fisiopatologici comuni che contribuiscono alla manifestazione della PCS (Panossian et al., 2022). Nonostante ricerche approfondite e la disponibilità di vari agenti farmacoterapeutici mirati a sintomi simili in altri disturbi, molti non sono riusciti a dimostrare un’efficacia significativa nel trattamento della PCS, evidenziando la natura multifattoriale della sua fisiopatologia.

Contrariamente ai farmaci sintetici che spesso prendono di mira meccanismi d’azione specifici, i farmaci erboristici comprendono diversi composti con proprietà farmacologiche diverse, offrendo un approccio sfaccettato alla gestione dei sintomi. Tra i farmaci erboristici più importanti, il Ginkgo biloba e la Rhodiola rosea hanno attirato l’attenzione per le loro proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e di miglioramento delle capacità cognitive (Panossian & Wikman, 2010).

Le indagini precliniche hanno sottolineato il potenziale degli estratti di Ginkgo biloba e Rhodiola rosea nell’affrontare la patofisiologia multifattoriale della PCS. Questi rimedi erboristici presentano proprietà antiossidanti, di miglioramento cognitivo, neurorestitutive, antinfiammatorie e antidepressive, offrendo così un approccio terapeutico completo per alleviare i sintomi associati alla PCS (Liu et al., 2015; Guan et al., 2012; Panossian & Wikman , 2010).

Studi clinici che hanno valutato l’efficacia di questi farmaci erboristici nei pazienti affetti da PCS hanno prodotto risultati promettenti, in particolare nell’alleviare i sintomi dell’affaticamento mentale e fisico. Tuttavia, la qualità degli studi disponibili è variabile, richiedendo una cauta interpretazione dei risultati (Panossian et al., 2022). Sebbene esistano dati limitati sugli effetti benefici del Ginkgo biloba e della Rhodiola rosea nei pazienti con PCS, prove preliminari suggeriscono la loro potenziale utilità nella gestione dei sintomi per periodi di trattamento prolungati (Kasper & Dienel, 2017; Ivanova Stojcheva & Quintela, 2022).

Nonostante il promettente potenziale terapeutico dei farmaci erboristici nella PCS, sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire i loro precisi meccanismi d’azione, i regimi di dosaggio ottimali e i profili di sicurezza a lungo termine. Studi clinici rigorosi con criteri di inclusione ben definiti e misure di esito standardizzate sono essenziali per corroborare i risultati preliminari e stabilire l’efficacia dei farmaci erboristici nella gestione della PCS (Panossian et al., 2022).

In conclusione, Ginkgo biloba e Rhodiola rosea rappresentano promettenti rimedi erboristici per affrontare la complessa sintomatologia della PCS. Le loro molteplici proprietà farmacologiche si allineano bene con la fisiopatologia multifattoriale della PCS, offrendo un approccio olistico alla gestione dei sintomi. Sebbene le prove esistenti siano incoraggianti, gli sforzi di ricerca in corso sono fondamentali per convalidare la loro efficacia, sicurezza e benefici a lungo termine nei pazienti con PCS. Sfruttando il potenziale terapeutico dei farmaci erboristici, i medici possono ampliare il proprio armamentario nell’affrontare le sfide poste dalla PCS, migliorando così la qualità della vita e i risultati funzionali degli individui affetti.


Link di riferimento: https://link.springer.com/article/10.1007/s00702-024-02749-3

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