Ma cosa pensano di ottenere in questo modo, i palestinesi?
Ormai dovrebbero aver capito che non è certo col terrorismo che avranno mai lo stato palestinese
Di Reuven Berko
Ogni tornata di violenza contro Israele ha visto gli arabi, per non dire i palestinesi, uscire clamorosamente sconfitti.
L’operazione Margine Protettivo della scorsa estate nella struscia di Gaza ha lasciato Hamas in ginocchio (tanto che oggi manda avanti donne e ragazzini di Cisgiordania, ma tiene a freno i suoi razzi). Eppure, a quanto pare, i palestinesi non hanno fatto tesoro di nessuna esperienza passata.
Ogni palestinese conosce a memoria il mito della nakba, la presunta catastrofe della nascita di Israele e dell’esodo dei palestinesi durante la guerra del ‘48, ma solo pochi di loro sono arrivati a capire che quella calamità fu il diretto risultato del loro rifiuto di accettare il piano di spartizione dell’Onu del ’47, dell’attacco degli stati arabi contro Israele e della loro conseguente sconfitta.
La nakba fu seguita dalla naska, la sconfitta araba nella guerra dei sei giorni del ’67, che portò alla liberazione di Gerusalemme e dei territori di Giudea e Samaria dall’occupazione giordana. Anche qui, i palestinesi non si sono mai soffermati a chiedersi come mai non gli venne in mente di fondare il loro stato indipendente prima della guerra del ’67, continuando invece a perseguire la “liberazione di tutta la Palestina”, cioè la distruzione di Israele.
Le disastrose, fallimentari ondate di terrorismo dei decenni successivi alla guerra dei sei giorni (con i dirottamenti aerei, le catture di ostaggi, le stragi alle olimpiadi e nelle scuole) sfociarono nelle intifade scoppiate nel dicembre ’87 e nel settembre 2000. In tutte e due le intifade le strutture del terrorismo palestinese subirono colpi micidiali. Di più. Gli attentati suicidi dei primi anni duemila generarono una disoccupazione senza precedenti sia fra i palestinesi che fra gli arabi israeliani, causando una grave crisi economica che potrebbe ripetersi oggi, visti i recenti avvenimenti.
Nella campagna della scorsa estate Israele ha bastonato Hamas, frustrando il suo sforzo di porsi come una minaccia strategica contro Israele, mentre i tentativi di “boicottare le opportunità di impiego in Israele e i prodotti israeliani” hanno finito col generare disoccupazione di massa e la nascita di un mercato nero dei prodotti da Israele.
Nel suo libro Le lezioni degli arabi dalle loro sconfitte, lo stratega Yehoshafat Harkabi esplorava le dimensioni dell’auto-inganno arabo. Un esempio recente si è visto nell’intervista concessa da Taleb el-Sana a i24 News, nella quale l’ex parlamentare arabo-israeliano afferma che “gli ebrei capiscono solo il linguaggio della forza: Hezbollah li ha cacciati dal Libano, Hamas li ha cacciati da Gaza e solo la forza della resistenza dei palestinesi li caccerà dalla Cisgiordania”. A quanto pare, el-Sana, a parte dare ragione a chi in Israele sostiene che ogni concessione verrà ricompensata solo da altro terrorismo, mostra di credere che il terrorismo esercitato dalla “resistenza” sia di per sé giustificato. Purtroppo sono molti i palestinesi in tutta la Cisgiordania che sostengono la “lotta armata” contro Israele, così come la sostengono molti membri della Lista Araba Comune e quel mostruoso fratello di Hamas che è il Ramo Nord del Movimento Islamico israeliano.
Per giustificare le loro varie forme di assassinio, i palestinesi spacciano la falsa credenza che il diritto internazionale permetta a un “popolo occupato” di ricorrere a “qualunque mezzo” nella sua “resistenza” contro coloro che “contaminano” la moschea di al-Aqsa. Se fossero invece disposti a imparare dalle lezioni della storia, avrebbero capito da tempo che non è accoltellando i cittadini israeliani che potranno mai liberare la Palestina.
(Da: Israel HaYom, 13.10.15)