Egitto: più di 1.000 fatwa tradotte in diverse lingue

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La Dar al-Ifta d’Egitto, una delle maggiori istituzioni islamiche del mondo arabo, ha tradotto più di 1.000 fatwa dall’arabo all’inglese, il francese e il tedesco.

La maggior parte di esse, sono contro la promozione dell’estremismo e del radicalismo religioso e contro il terrorismo.

Shawki Ibrahim, il Grand Mufti d’Egitto, ha dichiarato che “Dar al-Ifta […] ha adottato diverse misure per combattere gli strumenti di propaganda delle organizzazioni terroristiche”, soprattutto nell’ultimo periodo, dal momento che diverse organizzazioni “hanno corrotto l’insegnamento dell’Islam e stanno diffondendo la loro ideologia tra i giovani musulmani”.

La Dar al-Ifta, dunque, continua il suo lavoro di distribuzione della sua enciclopedia di fatwa digitale multilingue in più di 12 università e biblioteche in tutto il mondo.

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La fatwā (in arabo: فتوى‎, fatwā, plurale فتاوى, fatāwā), nel diritto islamico, corrisponde ai responsa del diritto romano.

Si tratta di una risposta data a un qāḍī, cioè a ungiudice musulmano di nomina governativa, da un faqīh (esperto di legge coranica), quando questi sia interpellato per conoscere quale sia l’orientamento sciaraiticoprevalente riguardo ad una certa fattispecie giuridica. In caso di risposta che affermi la liceità di un comportamento, il faqīh viene detto muftī.

Il quesito deve essere sottoposto in forma anonima e in lingua originale al Muftī, che indicherà l’astratto modo di procedere.

L’obbligatorietà dell’applicazione del disposto della fatwā si verifica quando il Muftī appartenga alla stessa scuola giuridica (madhhab) del qāḍī. In caso contrario la fatwā sarà un semplice parere, non cogente per il giudice che ha avanzato il suo interrogativo al Muftī.

I tribunali sciaraitici – oggi operanti solo in sporadici casi, lì dove siano state reintrodotte in tutto in parte le norme sciaraitiche – agiscono basandosi esclusivamente su quanto riportato dalle fonti della Shari’a (ossia Corano e Sunna).

Essendo la fatwā un’opinione personale, per quanto autorevole, essa non obbliga il giudice ad applicare quanto suggerito dall’esperto se il suo madhhab non sia esattamente quello del qāḍī richiedente. Quindi una fatwā non ha necessariamente alcuna diretta esecutività.

Oltre alla mancanza di esecutorietà della fatwā, va comunque ricordato che, essendo una sorta di parere pro veritate, può frequentemente avvenire che siano emessefatāwā tra loro del tutto discordanti.

Il fatto non crea scandalo alcuno nella cultura giuridica islamica, dal momento che un hadīth attribuito a Maometto asserisce che «la disparità di giudizi (ikhtilāf) è una benedizione per la Umma islamica».

La parola ha avuto notorietà in Italia per l’uso restrittivo con cui è stata intesa nel linguaggio dei media che la riferirono alla condanna a morte in contumacia pronunciata nell’anno 1989 dall’Ayatollah Khomeinī contro lo scrittore indiano Salman Rushdie, ritenuto reo di sacrilegio verso la religione musulmana per il suo libro I versi satanici.

Sebbene questo sia uno dei possibili significati, non è però uno dei più comuni, e molti musulmani si ritengono irritati da un simile indebito accostamento trafatwā e “pena capitale” da parte degli occidentali.

La fatwā può infatti riguardare pressoché qualunque aspetto della vita individuale, delle norme sociali e religiose, della guerra e della politica del mondo islamico.

Nei 1.400 anni di storia musulmana, milioni di fatāwā sono state emesse su innumerevoli situazioni quotidiane, come il matrimonio, gli affari economici e le questioni private. Tuttavia, un assai limitato numero di esse riguarda argomenti ben più controversi, come il jihad e i dhimmi, e sebbene siano emanate perlopiù da improvvisati e irrituali “dotti” fondamentalisti, tendono a ricevere molta più attenzione da parte dei mezzi di comunicazione non islamici, a causa dei loro importanti riflessi politici.

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