SAHARAWI : I rifugiati “in ostaggio” da quarant’anni

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I campi profughi saharawi si costituiscono un’eccezione: prima di tutto sono autogestiti, in secondo luogo questa autogestione è in mano alle donne.

Il motivo di questa autogestione è che i saharawi profughi in Algeria non sono la minoranza di uno stato-nazione, sono un intero Stato.

Nel momento in cui il Sahara venisse liberato i campi chiuderebbero nel più breve tempo e nessuno potrebbe opporvisi.

È per questo che i saharawi continuano a investire nel loro futuro e a migliorare le loro condizioni con alacrità. Camillo Boano scrive che “La vita di un rifugiato può essere definita da un altissimo grado di isolamento, non solo fisico, ma anche socio-economico e culturale”. I saharawi lottano da trent’anni per non essere isolati, per istruirsi, lavorare, crescere anche nell’esilio come popolo e come individui.

È così che danno un senso alla permanenza nei termini di costruzione di un futuro.
Un discorso a parte merita il posto di primo piano occupato dalle donne all’interno dei campi profughi saharawi.

Il trasferimento della popolazione si concluse nella primavera del 1976.

La prima città al di là del confine, Tindouf, non era in grado di accogliere i 200mila profughi in fuga, così venne scelta la località di Robinet (da “rubinetto”), che aveva un pozzo ed un serbatoio d’acqua.

Come prima misura il Polisario divise i rifugiati in tre gruppi, che poi diventarono quattro.

I quattro gruppi sarebbero andati a fondare gli accampamenti, distanti fra loro per motivi di sicurezza: si temeva infatti nei primi tempi un’incursione aerea marocchina, e poi erano presenti seri rischi di epidemie.

La zona che venne data dall’Algeria alla popolazione in fuga è l’hammada (deserto) algerino, tra Tindouf ed il confine con la Mauritania.

Una delle maledizioni più temute dalle genti del deserto significativamente recita: “Che Dio ti mandi nella hammada!”

Questo luogo infatti è un deserto piatto e pietroso, freddo d’inverno e soffocante d’estate (le temperature arrivano ai 45°-50° in estate per scendere poi in inverno a –5°), spesso battuto dall’erih, un vento molto forte che riempie gli occhi e la bocca di sabbia.

È in questa terra inospitale che è iniziata la sorprendente costruzione dello Stato in esilio, rapidamente, con l’aiuto di tutti, mettendo insieme le conoscenze e dandosi un’organizzazione.

Ogni accampamento (wilaya) ricevette il nome di una città del Sahara occidentale per evidenziare il legame con la terra lasciata, o come dice Luciano Ardesi, per “iscrivere sul terreno attraverso i nomi la simbologia della patria che si è stati costretti ad abbandonare”. Gli accampamenti si chiamarono quindi: Smara, Dakhla, El Ayoun e Ausèrd.

Ogni accampamento (wilaya) fu diviso in sei-otto province (dairas), a loro volta suddivise in quartieri (barrios).

In ogni daira furono istituiti Comitati popolari di base per i settori chiave: educazione, sanità, giustizia, approvvigionamento alimentare, artigianato.

I settori nei quali si concentrarono i primi e più consistenti sforzi furono quelli della sanità e dell’educazione. Ogni daira aveva un dispensario con le medicine e ogni wilaya un ospedale con un laboratorio di analisi e un reparto di ostetricia-ginecologia.

Le vaccinazioni erano obbligatorie e se c’erano casi gravi venivano mandati all’ospedale nazionale di Algeri.

Per quanto riguarda il settore dell’educazione scolastica in ogni daira vennero creati asili nido e scuole elementari a classi miste, cui in seguito si affiancarono scuole speciali per bambini disabili con personale saharawi specializzatosi all’estero.

Con il tempo poi vennero stipulate convenzioni con diversi stati per borse di studio ai saharawi per le superiori e l’università. Oggi sono tantissimi i giovani saharawi che prendono una laurea all’estero, soprattutto in Spagna, Italia, Algeria, Libia e a Cuba.

Oltre agli investimenti nei due settori suddetti sono state aperte scuole professionali. La scuola per donne “27 Febbraio” è una delle più importanti, fu istituita nel 1978 per alfabetizzare le donne e dar loro una formazione come istitutrici, infermiere, segretarie amministrative, e nel tempo informatiche, artigiane.

Dal punto di vista abitativo i profughi saharawi hanno ricreato una “dimensione casa” con le tende che sono state fornite dagli organismi internazionali ad ogni famiglia, anche se gli inizi sono stati drammatici.

Oggi tutte le famiglie vivono in una propria tenda, fornita dagli aiuti internazionali e quando serve ricucita dalle donne.

In ognuna sono contenuti tappeti, il necessario per preparare il the tradizionale, a volte un mobiletto per contenere i pochi oggetti personali, cuscini, coperte e materassi disposti sul perimetro della tenda utili per sedersi o dormire.

Accanto alle tende da un po’ di tempo sono comparsi piccoli edifici costruiti con mattoni di sabbia e acqua non cotti che fungono da cucina.

Nello stesso modo vengono costruiti anche edifici pubblici. Queste strutture essendo di materiale deperibile vengono però erose dal vento e dalle poche ma violente piogge.

La resistenza dei saharawi verso costruzioni più solide e durature soprattutto inizialmente era di tipo psicologico-ideale: costruire in cemento andava contro l’idea del ritorno nel Sahara, si voleva evitare di mettere radici.

Tuttavia da quando il processo di pace è entrato in stallo si costruisce di più, a volte, quando c’è, anche con il cemento.

Da un po’ di anni sono stati introdotti i pannelli solari come fonte di energia alternativa.

Nei campi non c’è acqua corrente: ad Ausèrd e Smara l’acqua viene trasportata con camion-cisterna ad ogni daira, dove poi la popolazione si rifornisce a seconda della composizione familiare. A Dakhla ed El Ayoun invece l’acqua è reperibile in pozzi a pompa manuali o con secchio e corda.

Ovviamente il sistema fognario non esiste e spesso i bagni sono semplici buchi nella sabbia. Il cibo arriva totalmente dagli aiuti umanitari e viene poi distribuito ad ogni famiglia.

I rifornimenti hanno durata mensile. Il pasto medio della famiglia saharawi consiste in: pane e olio o marmellata per colazione, zuppa di lenticchie o fagioli o pasta con verdure per pranzo, couss-couss per cena.

Raramente si mangia carne di dromedario, mentre spessissimo durante il giorno si beve the o latte. Per cercare di integrare l’alimentazione con cibi freschi sono stati fatti degli esperimenti di agricoltura nel deserto grazie al consulto di agronomi internazionali.

Oggi miracolosamente ogni accampamento ha un orto (in arabo jenna) coltivato a cipolle, carote, rape, zucche, cocomeri e pomodori.

Questi esperimenti, come i saharawi non si stancano di puntualizzare, sono fatti in visione del ritorno nel Sahara e in modo assoluto non in vista di un radicamento nella zona.

Sempre con l’obiettivo di integrare l’alimentazione negli accampamenti si pratica l’allevamento, a livello familiare e a livello statale.

Per quanto riguarda il primo tipo, quasi ogni famiglia alleva capre, pecore e a volte dromedari; per quanto riguarda il secondo tipo, il governo possiede polli (45mila) e numerose mandrie di dromedari (60mila capi) allevati secondo il sistema tradizionale nomade della transumanza.

Volendo collocare l’ordine politico dei saharawi in esilio si può dire che fino agli anni Ottanta c’è stato il comunismo, infatti tutti ricevevano un uguale trattamento indipendentemente dal ruolo che ricoprivano, l’attenzione era rivolta in primo luogo ai più deboli (bambini, anziani, donne gravide), non c’era circolazione di denaro, a tutti gli effetti era rispettata la formula comunista “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.

Con gli anni Ottanta è entrato in circolo il denaro, un po’ perché il governo spagnolo ha cominciato a pagare le pensioni ai saharawi che durante l’occupazione sono stati alle sue dipendenze lavorando nell’amministrazione o nell’esercito, un po’ perché all’interno di progetti di solidarietà internazionale i bambini saharawi hanno cominciato a fare viaggi estivi in Europa cui seguivano doni materiali e donazioni di denaro.

Oggi si assiste alla comparsa di piccole differenze fra le famiglie, infatti ai campi arrivano a titolo familiare nuovi beni di consumo occidentali (televisioni, cellulari, pannelli solari, radio,…) ed in tutte le wilaya sono sorte botteghe che commerciano vestiti, pipe, qualche spezia, qualche giocattolo occidentale, detersivi, caramelle, carne di dromedario. Per adesso però non c’è rischio che si formino consistenti disuguaglianze economiche, perché le risorse a disposizione sono ancora limitate.

All’interno dei campi fra i molti mutamenti i saharawi portano avanti alcune tradizioni in segno di continuità con il passato, come i riti d’accoglienza (l’offerta di the o di latte) e le formule di saluto.

Nei campi profughi come nel Sahara occidentale ogni occasione è buona per sedersi insieme sul tappeto e bere il the tradizionale.

Questo rito richiede l’abilità di chi lo prepara e un po’ di tempo, infatti la tradizione vuole che vada preso per tre volte di fila, la prima volta amaro come la vita, la seconda dolce come l’amore, la terza soave come la morte.

Alcuni sostengono che questa simbologia sia un’invenzione spagnola edulcorata di quella che era l’originaria motivazione dei tre the.

Secondo questi i tre the derivano il loro uso e nome da tre “g”, in hassaniya le iniziali di tre parole che significavano: riunione, brace, calma.

“I capi delle tribù nomadi, quando dovevano prendere decisioni, siriunivano in una tenda, attorno al the, per fare il quale era necessaria la brace, e dovevano discutere con calma e ponderazione”.

Il rito del the oltre ad essere una piacevole pratica di compagnia è molto radicato tra i saharawi come rito che li distingue rispetto agli altri popoli del nord Africa.

Un altro rito d’accoglienza è l’offerta di una ciotola di latte che una volta era di dromedario, oggi è in polvere o condensato.

Sempre in continuità con il passato nomade troviamo poi la formula di saluto.

Fra i saharawi del passato il saluto era il “telegrafo del deserto”, doveva servire a scambiare informazioni sulla situazione dei pozzi, sulla condizione delle piste, su eventuali pericoli, epidemie, sulla salute delle famiglie e sugli affari.

Come si può ben intuire la formula di saluto saharawi andava e va oltre le due parole.

Un esempio di come sono le formule di saluto ancora adesso nei campi è riportato in versione abbreviata nel libro di Fabrizia Ramondino Polisario, un’astronave dimenticata nel deserto.

I saharawi nei campi da un lato conservano le loro tradizioni per quanto gli è possibile, dall’altro sperimentano, crescono come popolo restando aperti a quello che arriva dall’esterno. Emblematico è l’uso dei pannelli solari.

La mentalità saharawi è aperta ai mutamenti in un costante gioco di mediazione fra tradizione e modernità.

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