Stati arabi temono il boomerang dell’intransigenza palestinese

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Giordania, Egitto e Arabia Saudita danno vita a una super-commissione della Lega Araba per sottrarre ai palestinesi la questione Gerusalemme

 

Giordania, Egitto e Arabia Saudita sono contrariati dal modo in cui l’Autorità Palestinese ha reagito al riconoscimento del presidente Usa Donald Trump che la capitale d’Israele è a Gerusalemme e alla sua decisione di trasferirvi l’ambasciata statunitense.

Il Segretario Generale della Lega Araba, Ahmed Aboul Gheit, ha annunciato nello scorso fine settimana che si metterà a capo di una nuova commissione composta dai ministri degli esteri di Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Autorità Palestinese con lo scopo di ideare una nuova politica su Gerusalemme.

Secondo fonti a Ramallah, Cairo e Amman sentite da Israel HaYom, la decisione di istituire la nuova commissione è stata presa dopo che è parso evidente che gli sforzi dell’Autorità Palestinese per contrastare l’annuncio di Trump erano risultati del tutto inefficaci.

“La decisione di istituire questa commissione è stata di fatto imposta all’Autorità Palestinese dall’Arabia Saudita, dall’Egitto e dalla Giordania con una decisione sostenuta dalla Lega Araba – ha detto a Israel HaYom un alto funzionario giordano –

Si tratta di una super-commissione diretta dal Segretario Generale della Lega Araba, che di fatto pone la Lega Araba alla guida della politica su Gerusalemme sottraendola ai palestinesi.

Gli sforzi fatti dai palestinesi per influenzare l’opinione pubblica sono stati un completo fallimento e come unico risultato hanno portato il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a creare una frattura tra il mondo arabo e l’amministrazione Trump.

E così ci ritroviamo di nuovo in balia della vuota retorica, demagogica e incendiaria, del presidente turco Recep Tayyip Erdogan”.

Riferendosi alla risoluzione non vincolante dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che chiede agli Stati Uniti di revocare la decisione su Gerusalemme, la fonte ha aggiunto:

“Washington ha messo in chiaro che avrebbe adottato misure contro i paesi che gli hanno voltato le spalle all’Assemblea Generale la scorsa settimana.

Ora appare chiaro che Trump intende dare seguito alla minaccia [domenica la missione Usa all’Onu ha annunciato un primo taglio di oltre 285 milioni di dollari dal contributo americano all’Onu nel bilancio 2018-2019], e molti di coloro che hanno votato contro gli Stati Uniti stanno cercando di correre ai ripari”.

Sul Monte del Tempio a Gerusalemme, fedeli islamici in preghiera rivolti verso La Mecca

Nel frattempo si sa che l’Autorità Palestinese è rimasta frustrata dal fatto che solo poche migliaia di palestinesi hanno raccolto nelle scorse settimane i suoi appelli insurrezionali anti-Trump.

I roboanti avvertimenti palestinesi secondo cui la dichiarazione di Trump su Gerusalemme avrebbe scatenato l’apocalisse incendiando tutto il Medio Oriente si sono sgonfiati piuttosto rapidamente sia nelle piazze palestinesi che in quelle del mondo arabo, in particolare negli stati sunniti “moderati”.

Così, nonostante l’apparente unanimità a parole nelle condanne su Gerusalemme, gli stati arabi hanno evitato di adottare misure concrete per contrastare la dichiarazione americana.

Un alto funzionario di Amman ha detto a Israel HaYom che il colossale fallimento del tentativo palestinese di creare un fronte arabo-islamico unito contro la decisione di Trump ha suscitato in particolare fra i funzionari governativi giordani la preoccupazione che ne risulti compromesso lo status del Regno Hashemita quale custode dei luoghi santi islamici a Gerusalemme (riconosciuto anche dal Trattato di pace con Israele del 1994).

Secondo la fonte giordana, il tentativo dei palestinesi di costringere la comunità internazionale a intervenire su Gerusalemme attraverso una dura posizione retorica che rifiuta gli Stati Uniti come mediatori dei negoziati di pace, potrebbe facilmente trasformarsi in un boomerang giacché lo status giordano a Gerusalemme si fonda proprio su riconoscimento e garanzie da parte di Usa e Israele.

Alti funzionari arabi si sarebbero spinti al punto di premere su Abu Mazen affinché ridimensionasse la sua intransigenza retorica.

Secondo un alto funzionario palestinese, la scorsa settimana re Abdullah II di Giordania ha inviato emissari d’alto livello a Ramallah per discutere della questione con i palestinesi.

Ma le fonti sia a Ramallah che ad Amman affermano che Abu Mazen e i suoi non hanno cambiato posizione, rimanendo fermi sul punto che l’amministrazione Usa non deve più prendere parte al processo di pace:

una posizione che sembra fatta apposta per assicurarsi che i negoziati non riprendano più per chissà quanto tempo.

Secondo le fonti, l’Autorità Palestinese voleva mettere in imbarazzo il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, rifiutandosi di incontrarlo a Betlemme durante la sua visita in programma nella regione alla vigilia di Natale, ma l’amministrazione Usa ha posticipato la visita citando l’importante votazione al Congresso sulla riforma fiscale.

“Gli americani – dicono le fonti – volevano di dare tempo ad Abu Mazen per tornare sulla sua decisione, ma quando è apparso evidente che Abu Mazen non avrebbe comunque incontrato Pence, gli americani hanno cancellato del tutto la visita di dicembre”.

Ecco perché gli stati arabi stanno monitorando da vicino i palestinesi, dice un alto funzionario giordano:

“Siamo molto preoccupati che le azioni dei palestinesi su Gerusalemme, i loro sforzi per escludere gli Stati Uniti dal processo di pace e la loro insistenza su un intervento internazionale si traducano in un’arma a doppio taglio che potrebbe colpire innanzitutto lo status della Giordania a Gerusalemme e portare all’esatto contrario del risultato voluto:

molti altri paesi potrebbero fare ciò che hanno fatto gli Stati Uniti, dopo aver visto che la regione non è affatto esplosa e che solo poche migliaia di manifestanti sono scesi nelle piazze”.

Nel frattempo, secondo notizie pubblicate domenica da mass-media israeliani, indirettamente confermate dalla Casa Bianca, gli Stati Uniti non avrebbero intenzione di presentare il loro nuovo piano di pace fino a quando i palestinesi non accetteranno di tornare a impegnarsi con l’amministrazione Usa.

Forse è proprio quello che voleva la dirigenza palestinese.

(Da: Israel HaYom, israele.net, 26.12.17)

1955: dopo aver presentato le sue credenziali, l’ambasciatore del Guatemala Juan Garcia Granados esce dalla residenza del Presidente d’Israele, a Gerusalemme
Il presidente del Guatemala, Jimmy Morales, ha annunciato domenica sera che il suo paese trasferirà l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
Secondo fonti israeliane, Morales era determinato sin dall’inizio a spostare l’ambasciata, ma stava aspettando che lo facessero gli Stati Uniti.
Ulteriore conferma della legittimità del provvedimento gli è giunta dal fatto che, giovedì scorso all’Onu, ben 65 paesi hanno evitato, in un modo o nell’altro, di votare contro la mossa di Washington.
Lunedì la viceministra degli esteri israeliana Tzipi Hotovely ha detto a radio Kan Bet che Israele sta trattando con una decina di paesi che potrebbero seguire l’esempio di Usa e Guatemala. Non li ha citati per nome, ma secondo gli osservatori fra essi potrebbero figurare l’Hondorus e il Paraguay
Solo tre degli otto paesi del Centro America hanno votato contro Usa e Israele all’Onu.
Honduras e Guatemala sono tra i sette paesi che hanno votato insieme a Stati Uniti e Israele, mentre il Paraguay si era astenuto. Viene fatto anche il nome del Togo, paese africano che ha votato insieme a Usa e Israele. Hotovely ha detto ad Ha’aretz che i colloqui diplomatici si concentrano sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele, più che sul trasferimento immediato delle ambasciate. Dopo la dichiarazione di Trump dello scorso 6 dicembre, alti rappresentanti della Repubblica Ceca, delle Filippine e della Romania (tutti astenuti all’Onu) hanno menzionato la possibilità di un tale riconoscimento.

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